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Economia
Autostrade e rete unica, Draghi va avanti sui grandi dossier industriali

Inizia a prendere forma il governo a guida Mario Draghi che incassa oggi la fiducia alla Camera. Non tanto nei nomi dei ministri, ma soprattutto nelle intenzioni. Ambiente, scuola, lavoro: le emergenze e le priorità sul tavolo sono ovviamente tantissime. Ma ci sono altri due dossier (o forse tre) su cui il premier dovrà mostrare davvero come la pensa: Autostrade, la rete unica e perfino l’ex-Ilva che merita un discorso ulteriore.

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Partiamo da Autostrade per l’Italia: quando si decise di privatizzare l’infrastruttura garantendo ai nuovi gestori una montagna di denaro, non si poteva ovviamente immaginare che una ventina d’anni dopo avremmo assistito al crollo di un intero cavalcavia con 43 morti. Quello che però appare evidente dalle indagini della magistratura è che la gestione della rete e la manutenzione ordinaria e straordinaria sono state deficitarie: a fronte di 43 miliardi di guadagni tra il 2000 e il 2018, solo 5 sono stati destinati al controllo di ponti e strade. Oggi la famiglia Benetton è pronta a uscire dall’azienda. La modalità dovrebbe essere quella di un aumento di capitale dedicato per consentire l’ingresso di Cdp, ma rimangono alcuni punti da chiarire.

Quello che Affaritaliani.it può riferire da fonti qualificate è che il nuovo management guidato da Enrico Laghi si dice fiducioso sulla chiusura della partita, con un accordo fra Cdp-fondi-Atlantia sulla cessione di Aspi. E Draghi, che pure è stato l’uomo che ha guidato le privatizzazioni in Italia, non dovrebbe battere ciglio o cercare di rimodellare l’accordo secondo nuove esigenze. D’altronde, ci sono almeno due indizi a suffragio di questa tesi.

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Il primo è di carattere teorico: il premier è un keynesiano convinto. E l’economista si fece promotore di una dottrina in cui lo stato deve essere presente nelle partite che contano. Per intenderci: se Draghi ha già chiarito che non ha alcuna intenzione di attivare la golden power per la vicenda Creval-Crédit Agricole, rubricando la trattativa a normali scaramucce di mercato, è certo che vorrà mantenere un controllo notevole sulla vicenda Autostrade. Sapendo – oltretutto – che la pax che regna in queste settimane non potrà essere eterna e che dovrà per forza di cose scendere a compromessi anche con chi, come i Cinquestelle e Leu, ha da sempre spinto per la revoca delle concessioni ai Benetton e il ritorno nelle mani dello stato.

Il secondo indizio è un rumor: si dice che Fabrizio Palermo potrebbe cedere il passo a Dario Scannapieco, che fu il “braccio armato” di Draghi da direttore generale del Tesoro. Ma l’avvicendamento non cambierebbe di molto la sostanza: la Cassa, che è stata usata come una nuova Iri dai governi giallo-verde e giallo-rosso, forse ridurrà un po’ il suo interventismo, ma di certo non si trasformerà in un soggetto ingessato o incapace di prendere posizione.

Giovanni Gorno Tempini e Fabrizio Palermo di CDP
 

L’altro dossier caldo è quello sulla rete unica, e qui la questione è ancora più complicata. A giorni dovrebbe scadere l’ultimatum di Open Fiber per definire che cosa vuole fare Enel con il suo 50% dell’azienda: cederlo in toto, tenerne un 10%? La seconda ipotesi pare la più probabile, ma il tempo passa e nessuno si muove. Eppure c’è bisogno di portare avanti il piano di digitalizzazione che, comunque vada, è già in ritardo rispetto a quanto concordato 10 anni fa con l’Europa.

L’obiettivo era di avere almeno il 70% del territorio connesso a 100 Mbit/sec, ma oggi l’Italia viaggia a 48 Mbit/sec di media, perdendo terreno non solo dai paesi del nord storicamente più avanzati, ma anche da omologhi come la Spagna. Cablare l’Italia, magari con la tecnologia Fwa che permette di non dover installare la fibra ma di usare antenne che garantiscono connessione rapida, è un’urgenza anche in ottica europea. Perché una parte consistente dei fondi del Next Generation Ue poggia proprio sul digitale. Che non significa navigare più veloci per vedere Facebook o Netflix, ma anche poter migliorare le applicazioni per il manifatturiero, per le aziende, per il business.

Ma bisogna trovare il modo: se si vuole fare “la rete unica”, è necessario che Draghi usi tutto il suo potere per far digerire alla commissaria Vestager (ma non solo) il fatto che Tim sia al tempo stesso il gestore del servizio e della rete, cosa che proprio le liberalizzazioni a suo tempo avevano cercato di evitare. Se non fosse stato per i privati come Fastweb (all’epoca e-Biscom) Milano non avrebbe avuto la fibra ottica 20 anni fa.

Infine, una postilla sull’Ilva. Che Arcelor Mittal sia poco interessato al nostro Paese, appare abbastanza evidente. Al tempo stesso, non sembra neanche troppo intenzionato a cedere il passo a un competitor che dall’acciaieria più grande d’Europa avrebbe da trarre qualche vantaggio in termini di quote di mercato. Non si può neanche pensare di spegnere una fabbrica che rifornisce molta parte della manifattura europea. E quindi? Anche in questo caso appare evidente che Draghi – questa volta per mano di Invitalia – dovrà prendere in mano il dossier e decidere se sia il caso di tornare all’acciaio di stato o se sia meglio trovare dei compratori.

Ma i problemi più gravi rimangono, soprattutto se si pensa all’enorme tema delle bonifiche. Su questo, però, serve un discorso squisitamente politico: Domenico Arcuri piace a Mario Draghi? Oltre al pressing salviniano, a giudicare dal ruolo ritagliatogli sul piano vaccinale, sembra che la scintilla non sia proprio scoccata.

Continuano a spuntare voci sul tema mascherine che sembrano andare contro al manager calabrese: si tratta di puro lavoro giornalistico o dietro c’è una strategia volta a screditare lo stesso Arcuri? E dunque, chi gestirà il dossier sull’acciaieria di Taranto? L’attuale amministratore delegato di Invitalia resterà al timone o verrà sostituito dalla controllata del Tesoro? Tante domande la cui risposta deve arrivare nel più breve tempo possibile. Perché le lancette ticchettano sempre più velocemente.

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