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Economia
Banche italiane tra tagli e chiusure: in 2 anni a casa 20mila lavoratori

Il 2019 sarà l’anno del definitivo ritorno alla redditività degli istituti italiani, elemento propedeutico per un nuovo giro di fusioni e acquisizioni annunciate da tempo ma che tardano a manifestarsi? Di certo finora l’anno in corso si preannuncia come l’ennesimo anno di tagli e chiusure. Solo nelle ultime 48 ore sono state annunciate ulteriori chiusure di 330 sportelli (100 da parte di Banca Carige, in aggiunta alle 120 filiali di cui era già stata annunciata la chiusura a fine 2017, 230 da parte di Bper Banca) e 2350 esuberi, sia pure senza ricorrere a licenziamenti ma solo a prepensionamenti (1050 nel caso dell’istituto ligure, in aggiunta ai mille annunciati ai fine 2017, 1300 nel caso della banca emiliana).

Molto più alto rischia di essere il conto complessivo: secondo un’analisi della società di consulenza Oliver Wyman di pochi mesi fa solo per allinearsi alla media europea anche in termini di operatività digitale, le banche italiane potrebbero nei prossimi anni ridurre tra 70 e 85 mila posizioni il numero dei bancari, tramite prepensionamenti, dimissioni più o meno incentivate. Un numero non molto dissimile da quanto indicato nel 2016 da Mc Kinsey: 50 mila tagli entro la fine del 2019, in gran parte dunque già scontati. 

Per la precisione, nel corso dell’ultimo biennio hanno già tagliato il personale l’ex Bpvi (1.500), Cariparma (300 entro quest’anno), Banca Carige (appunto 2.050 con gli ultimi annunci), Mps (2.600 in tutto entro fine anno), Unicredit (6.145 dipendenti in meno a fine 2018), Intesa Sanpaolo (un migliaio al netto degli esuberi legati alle ex banche popolari venete), Bper (che aveva già ridotto il personale di 585 unità a fine 2017 prima di annunciare gli ulteriori 1.300 prepensionamenti attuali), Bnl-Bnp Paribas (527 esuberi nel triennio 2014-2016 seguiti da altri 783 uscite annunciate a fine 2016), Banco Bpm (un migliaio previsti già entro il 2017), Ubi Banca (2.750 esuberi tra il 2017 e il 2020) e poi via via numeri inferiori per istituti come l’ex Banca Marche (210), l’ex Banca Etruria (circa 160) o l’ex Carife (oltre 340 tra prepensionamenti e dimissioni incentivate).

In tutto oltre 20 mila posti già eliminati o in fase di eliminazione, ma il rischio è che restino a casa nei prossimi anni un numero doppio o triplo di dipendenti. Una cura dimagrante accelerata dovuta ad un livello finora troppo elevato e ad una struttura troppo rigida dei costi delle banche italiane causati da tre fattori principali, secondo molti analisti: un mercato del lavoro ancora poco fluido, una dimensione media relativamente modesta delle banche, un ritardo strutturale nell’adozione dell’innovazione digitale. Il secondo di questi fattori, in particolare, dovrebbe favorire una ripresa del processo di concentrazione e differenziazione degli istituti italiani.

Non a caso sviluppo di attività più redditizie accanto a quelle “classiche” di banca retail ed efficientamento sono, assieme all’azione di derisking portata avanti praticamente da tutte le banche italiane anche sotto la spinta della Bce, i tratti comuni di tutti i piani industriali annunciati finora. Insomma: le banche italiane dopo essersi scoperte non così solide come erano state dipinte fino all’esplodere della crisi finanziaria del 2009, hanno dovuto cercare di tamponare le falle che si sono aperte nei conti a causa di uno scenario di tassi vicino a zero prima, dell’esplodere delle sofferenze su crediti poi, della limitata capacità di adeguare il proprio business model ad un’industria dove i servizi sono sempre più offerti online e sempre meno fronte strada. E a pagare il conto, inevitabilmente, sono stati ancora una volta i lavoratori.

 

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