Ex Ilva, ora tocca a Meloni. Fiom-Cgil: "Acquirenti? Tutte falsità, chiusura è inevitabile. Serve l’intervento delle partecipate" - Affaritaliani.it

Economia

Ultimo aggiornamento: 18:23

Ex Ilva, ora tocca a Meloni. Fiom-Cgil: "Acquirenti? Tutte falsità, chiusura è inevitabile. Serve l’intervento delle partecipate"

Urso convoca un ennesimo tavolo, ma le organizzazioni sindacali richiedono l'intervento della premier Meloni: il futuro dell'Ex Ilva è in bilico. Parla Loris Scarpa, coordinatore nazionale siderurgia della Fiom-Cgil

di Rosa Nasti

Ex Ilva, pressing dei sindacati su Meloni. Fiom-Cgil: "Chiusura alle porte. Sui compratori è tutto falso"

La situazione sull'Ex Ilva è arrivata a un punto di non ritorno: scioperi a raffica, strade bloccate, e sullo sfondo la rabbia dei migliaia di lavoratori in cassa integrazione, rabbia oramai difficile da contenere. I sindacati non ci girano più intorno, accusano il governo di star spingendo il polo siderurgico verso la chiusura definitiva, e chiedono che il piano industriale venga ritirato.

Urso prova a rimettere insieme i cocci e convoca un altro tavolo per il 28 novembre, forse un ennesimo tentativo di "mettere una toppa" sulla situazione, ma che molto probabilmente si rivelerà vano. Sì perché ormai i sindacati (Fim-Fiom-Uilm) vogliono che sia direttamente Giorgia Meloni a metterci la faccia, che si "assuma la responsabilità, garantendo l’integrità e la continuità produttiva di tutti gli stabilimenti". Sul futuro dell'ex Ilva per ora si stende solo una fitta nebbia, e per provare a fare un po' di chiarezza ne abbiamo parlato con Loris Scarpa, coordinatore nazionale siderurgia della Fiom-Cgil.

"Così si arriva alla chiusura di tutti gli stabilimenti. L’unica cosa certa che hanno messo in quel piano è la cassa integrazione, più un percorso di formazione di 60 giorni usato come ammortizzatore sociale e non per rilanciare l’occupazione, che è aberrante. Questa è la prima certezza, e la seconda è che ci hanno detto che non ci mettono più soldi. Non sappiamo se ci sarà un compratore, se verranno fatte le manutenzioni, se ripartiranno gli altoforni. Dal punto di vista industriale non c’è nulla di certo, ed è per questo che diciamo che questo è un piano di chiusura".

E aggiunge "E poi, a marzo, quando finirà questa cassa integrazione con altri impianti chiusi e altri da chiudere e che dovrebbero essere rimessi a posto da futuri compratori, che per noi non esistono, si fermeranno anche gli impianti rimanenti. Insomma si va verso la chiusura totale.

Su questi possibili acquirenti sono state dette molte falsità. Il bando è sempre lo stesso, aperto dal 2024, e hanno continuamente rinviato le offerte. All’inizio c’erano varie proposte, pochissime comunque per tutto il gruppo, e per i tre stabilimenti principali non c’era nessuna offerta reale. Questa è la verità. Qualcuno diceva ‘prendo tutto’, ma alla fine quelli arrivati per ultimi offrivano 'un euro'. E se arrivasse un compratore serio oggi, cosa dovrebbe fare? Offrire due euro?".

Poi entra nel merito del nodo politico-industriale: "L’amministrazione straordinaria non fa impresa, ma gestisce un fallimento. Bisogna uscire da questa situazione e passare a una fase con un intervento pubblico, pertanto chiediamo che siano le partecipate pubbliche a intervenire insieme: possono essere fornitrici e utilizzatrici finali dell’acciaio, quindi hanno tutto l’interesse a far vivere l’impianto. Pensiamo a Eni, Enel, Leonardo, Fincantieri o anche Webuild. Mettendosi insieme, queste aziende avrebbero tutta la forza per fare gli investimenti sulla decarbonizzazione e garantire l’occupazione".

Ma perché questa opzione non è mai stata presa in considerazione finora? "Perché c’è un approccio ideologico", spiega Scarpa. "Stanno mettendo in condizioni disumane le persone e il Paese perché c’è un approccio veramente ideologico nella vertenza Ilva". Sul famigerato "spezzatino" è ancora più netto: "Non aveva nulla di industriale. Le offerte riguardavano solo i siti più piccoli: Milano, Paderno Dugnano, Marghera, Padova, Legnaro, Salerno. Qualcuno voleva perfino le aree di Taranto e Genova, più che gli impianti, mentre per Genova, Novi e Taranto non c’erano vere proposte".

Aggiunge anche: "Il governo ha scelto di puntare su soggetti esteri che poi si sono defilati tutti, perché avevano capito che la situazione non era credibile. Gli investimenti promessi non sono stati fatti, addirittura i manutentori sono stati messi in cassa integrazione, e non è stata data la liquidità necessaria. Per questo insistiamo ancora sul fatto che serva una gestione pubblica".

Ma a questo punto quali dovrebbero essere le condizioni per cui si ristabilisca un confronto con il governo? "Che ritirino il piano", spiega senza mezzi termini Scarpa. "Partiamo da come gestire l’oggi, da cosa succede adesso. Il piano industriale di luglio era già condiviso: ripartiamo da lì e poi individuiamo il soggetto, una partecipata pubblica, che possa guidare quel percorso, garantire la transizione e restituire finalmente un po’ di serenità al Paese sull’acciaio e ai lavoratori".