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Economia
Recovery fund e Mes, le riforme italiane che condizionano i finanziamenti Ue

L’Italia ha le casse vuote. Per questo chiede uno scostamento di bilancio (ancora debiti) di venticinque miliardi. Purtroppo le opposizioni non sono disposte a votare il provvedimento a scatola chiusa e alcune delle loro richieste – per esempio quelle della Lega – sono rovinose. Sicché la maggioranza potrebbe trovarsi obbligata a chiedersi come pagare stipendi e pensioni. Per non dire che potrebbe anche cadere il governo, e questo mentre non abbiamo neppure una maggioranza di ricambio, con un serio programma.

Intanto, in un modo o nell’altro, per il Covid l’Italia si “spara” qualcosa come cento miliardi e il nostro debito pubblico si avvicina ai 2.500 miliardi, con una percentuale sul pil da spavento. Ma che importa, gli italiani sono convinti che il debito non sarà mai ripagato e i mercati finanziari assorbiranno sempre i nostri Titoli di Stato. Infatti il problema di cui si discute è quello del Mes e Vito Crimi, dei Cinque Stelle, dice che non ne abbiamo bisogno, perché presto avremo i 209 miliardi dell’Europa. Come chi, a Ferragosto, si rifiutasse di mangiare, tanto ha già prenotato il Cenone di Capodanno.

Il vero problema, per come lo vedo io, è il fatto che i miliardi “europei” sono seriamente condizionati dalla presentazione di progetti di riforme riguardanti la Pubblica Amministrazione, la Giustizia, la Scuola, il mercato del lavoro, la semplificazione legislativa ed altro ancora. Da noi ci si attendono piani particolareggiati e minutamente applicativi, che dovranno prima essere approvati da Bruxelles. Fra l’altro, il piano generale dovrebbe essere presentato entro ottobre e ancora non ci si è posto mano. Chi dice che riusciremo a redigerlo in tempo?

Qualcuno potrebbe pensare che mostrarsi scettici e pessimisti dipenda dalla tentazione di apparire saggi e competenti. Qualcun altro potrebbe pensare che il pessimismo nasca dall’opinione negativa che si ha degli attuali governanti. In realtà, gli ostacoli che qui si prospettano non riguardano questo governo, ma la natura stessa della materia. Per essere adeguatamente compreso, il problema deve essere discusso sul piano teorico.

Di riforma si parla quando una situazione è giudicata molto negativa. Come l’amministrazione della giustizia in Italia. La riforma si distingue dalla correzione, dall’innovazione, dal miglioramento, perché è radicale e costituisce un “ripensamento”, una “riprogettazione” dell’intera istituzione, mentre i singoli cambiamenti mirano a correggere singole disfunzioni.

Purtroppo la situazione esistente non è il frutto della volontà di qualche malintenzionato: è il portato del passato. Di ciò che si è fatto fino a quel momento. E coloro che sono toccati dai mutamenti, per abitudine o per interesse, resistono con tutte le loro forze. Ciò spiega perché, sino ad oggi, si è sempre parlato di grandi riforme, e – per quel che ricordo – non se ne è realizzata nessuna.

Da ciò discende che in tanto si può concepire una grande riforma in quanto ricorrano due condizioni fondamentali: chi vuole attuarla deve avere un’idea chiara e precisa di ciò che vuole ottenere, essendo pronto a combattere contro tutti e a superare ogni ostacolo, per quanto impervio. Si pensi alla riforma della Turchia, attuata da Atatürk. La seconda condizione è che, alla risolutezza del progetto, corrisponda una forza massiccia e coesa che sostenga quel piano. Pensiamo alla Rivoluzione Francese. Il movimento partiva dall’Illuminismo e aveva intenti così chiari, che gli stupidi ostacoli opposti dalla monarchia e dai nobili, invece di scoraggiarlo, lo resero più aggressivo. Fino a fanatizzarlo, come avvenne col Terrore.

Ma, perché esista la forza riformatrice, è necessario che nella società ci sia un movimento di opinione abbastanza importante, nella direzione giusta. Se invece l’intera società è divisa in mille fazioni, in mille partiti l’un contro l’altro armati, come si può sostenere adeguatamente un progetto coraggioso? Il dissenso sarà implacabile già al momento del progetto. E non perché i protagonisti siano stupidi o fanatici: semplicemente perché esistono opposte ideologie dalle quali non si riesce ad uscire.

Nella mentalità liberale, il capitalista fonda l’impresa con lo scopo del profitto, e per realizzarlo crea posti di lavoro. Nella mentalità marxista ancora largamente presente in Italia, poco importa che l’impresa sia privata o statale, essa non ha lo scopo di produrre un profitto ma quello di creare posti di lavoro. E questi devono essere mantenuti, quand’anche nel frattempo fossero divenuti antieconomici. Si pensi all’Alitalia e all’attuale blocco dei licenziamenti. In Italia è considerato normale che un imprenditore sia costretto a pagare uno stipendio ad un lavoratore di cui non ha alcun bisogno, perché glielo ordina lo Stato. Questo è qualcosa che non ha senso economico, ma soltanto un senso politico. In queste condizioni, come si può attuare da noi una riforma del lavoro quale potrebbe piacere ad un Paese liberale del Nord Europa?

Immaginiamo un genio capace di capire dove risiedono tutte le magagne della Pubblica Amministrazione e capace di eliminarle, diminuendo della metà il numero dei dipendenti e il costo per lo Stato. Domanda: quale Italia lascerebbe andare in porto un simile progetto? Quanti partiti non si lancerebbero in groppa alla tigre, per ricevere i voti degli statali minacciati di licenziamento?

Ammettiamo ancora che alla fine, presi alla gola, gli italiani dicano all’Unione Europea: “Abbiamo talmente bisogno di quel denaro che accettiamo qualunque condizione. Scrivete voi stessi le riforme”. Prima domanda: l’Italia accetterebbe un simile diktat, con un contenuto francamente liberale e tale da disturbare moltissimi “rentier” del sinistrismo? E quand’anche dicesse di sì, pur di avere il denaro, farebbe poi veramente quelle riforme?

Né ci si può cullare, come oggi si tende a fare, sulla generosità degli aiuti promessi. Più grandi sono le possibilità, più grandi sono i progetti. Dunque la discussione sarà asperrima, anche perché l’Italia è in arretrato in moltissimi campi. La maggior parte delle scuole sarebbe da sistemare o ricostruire (quanti edifici sono antisismici, quanti hanno le vie di fuga in caso di incendio?) Le carceri sono sovraffollate e bisognerebbe costruirne decine e decine; le nostre strade sono piene di buche; molti ponti e viadotti sono a rischio crollo; molti servitori dello Stato sono sottopagati (vigili del fuoco, agenti di polizia, carabinieri, professori, la lista è lunga). Insomma, se ci dessero 209 miliardi tutti insieme ci sarebbe una bella rissa, intorno a questa tavola imbandita. E alla fine sembrerebbero addirittura pochi. Ma il fatto è che non ce li daranno. L’erogazione è diluita nel tempo, condizionata dall’adempimento degli impegni assunti, ed anche dal fatto che siamo riusciti a sopravvivere fino all’arrivo del denaro.

Noi, attualmente, abbiamo le casse vuote. Non ci siamo ancora ripresi dal Covid e dobbiamo tuttavia tirare fino all’estate prossima, non si sa come, con un governo che invece di pensare alla sopravvivenza pensa a distribuire bonus. E i politici sono tutti contenti, perché ciascuno è convinto che avrà personalmente duecentonove miliardi in tasca e potrà farne ciò che vuole.

giannipardo1@gmail.com

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