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Esteri
Chip war: guerra Usa-Cina sul nuovo petrolio. In Asia non piace il piano Biden

La chip war tra Cina e Usa si gioca tra Paesi Bassi, Giappone, Corea del Sud e Taiwan

Segnali di insoddisfazione dagli alleati asiatici degli Stati Uniti nella chip war. Sì, perché c'è una guerra che si combatte con le armi. Quella in Ucraina e, purtroppo, in diverse altri parti del mondo. E poi c'è una guerra che si combatte a colpi di investimenti, fondi speciali e restrizioni che lasciano intravedere lo spettro di un disaccoppiamento (decoupling) tecnologico. Al centro di questo secondo conflitto c'è soprattutto una cosa: i semiconduttori, comunemente noti come microchip. E i due principali contendenti sono sempre loro, Stati Uniti e Cina. Con i primi impegnati con tutte le forze a provare a escludere la seconda dalle catene di approvvigionamento delle tecnologie più avanzate. E la seconda impegnata con tutte le forze a provare di raggiungere l'autosufficienza tecnologica che la schermi dalle chiusure del mondo esterno dall'altra. 

Joe Biden ha intensificato le manovre avviate già da Donald Trump per convincere i partner decisivi nella produzione di semiconduttori a bloccare o limitare i rapporti con Pechino. C'è riuscito soprattutto con Giappone e Paesi Bassi, che nonostante i mugugni (soprattutto olandesi) sembrano essersi pressoché allineati. Le aziende di entrambi i paesi non sono certo felici, visti i rischi di perdita di un business fondamentale.

La stessa ASML ha fatto sapere di sperare di poter limitare i danni, ma in realtà il ban rischia di velocizzare il tentativo cinese di sviluppare tencologie simili per raggiungere una comunque ancora lontana autosufficienza. L'ok del Giappone non era comunque in discussione, visti i rapporti sempre più stretti tra Tokyo e Washington, suggellati dalla visita del premier Fumio Kishida alla Casa Bianca lo scorso 13 gennaio, durante la quale è stato annunciato un rafforzamento ulteriore della partnership in campo militare.

Meno scontato era invece il via libera dei Paesi Bassi, che avevano sempre provato a evitare le richieste americane di restrizione. E si tratta di un via libera ancora più significativo, visto che la ASML detiene il sostanziale monopolio nella produzione di macchinari per la litografia ultravioletta, fondamentali per uno degli step di produzione dei microchip. Privare la Cina di questi macchinari può frenarne la crescita nel settore in modo significativo.

La Corea del Sud critica le mosse di Biden sui chip

Ma se i semiconduttori sono il petrolio del futuro, questo petrolio scorre soprattutto in Asia orientale. Quantomeno a livello materiale. In particolare tra Taiwan e Corea del Sud. Qui si fabbrica e assembla la totalità dei semiconduttori mondiali sotto i 10 nanometri, quelli più avanzati. Le aziende taiwanesi controllano oltre il 65% dello share globale del comparto di fabbricazione e assemblaggio dei semiconduttori. La TSMC da sola pesa oltre il 50%. Il primo competitor è la sudcoreana Samsung col 16% del mercato. Il dominio è ancora più esteso dal punto di vista qualitativo: i produttori taiwanesi detengono il 92% della manifattura di chip sotto i dieci nanometri

Entrambe al centro di tensioni diplomatiche e geopolitiche, entrambe destinatari di pressioni politiche. Sia Taipei sia Seul hanno rinviato il più in là possibile il momento in cui sarebbero state costrette a operare una scelta di campo. Ebbene, ora i partner asiatici degli Usa e membri della cosiddetta Chip 4 (una sorta di alleanza proposta da Washington con Giappone, Corea del Sud e Taiwan per rafforzare la produzione e le supply chain "democratiche") esprimono con inedito vigore delle riserve sui piani di Biden.

"Il governo sudcoreano chiarirà che le condizioni del Chips Act potrebbero aggravare le incertezze commerciali, violare i diritti di gestione e di tecnologia delle aziende e rendere gli Stati Uniti meno attraenti come opzione di investimento", ha dichiarato il ministero del Commercio della Corea del Sud in attesa di incontrare l'omologo statunitense a Washington nei prossimi giorni. 

Secondo il Chips Act, le aziende che accettano gli incentivi sono tenute a condividere con il governo degli Stati Uniti una parte dei loro profitti che superano le previsioni iniziali di una soglia concordata. Alle aziende che si aggiudicano i sussidi per i chip verrebbe impedito di impegnarsi in attività congiunte di ricerca e di licenza tecnologica o di espandere la capacità produttiva di semiconduttori in Paesi stranieri di interesse come la Cina per 10 anni. Sia Samsung Electronics che SK Hynix hanno fabbriche di chip in Cina.

Le aziende produttrici di chip sono anche preoccupate anche per l'obbligo di fornire informazioni sulle proiezioni dei profitti e sulle operazioni, perché considerate segreti commerciali. La stessa cosa, anche se più sottotraccia, avviene a Taiwan. Il timore è quello di perdere quel cosiddetto "scudo di silicio" che si ritiene possa fungere da potenziale (e molto parziale, c'è da dire) deterrente nei confronti di una possibile azione militare di Pechino. La funzione di quello "scudo di silicio" va vista anche al contrario: per molti taiwanesi rappresenta anche una parziale garanzia della volontà di Washington di difenderli, allo scopo di impedire che le fonderie della TSMC finiscano sotto il controllo del Partito Comunista Cinese.

Per questo la costruzione di due stabilimenti TSMC in Arizona e le manovre normative statunitensi fanno temere a Taipei che quello scudo di silicio possa rischiare di sgretolarsi.

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