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Esteri
Guerra in Ucraina e crisi di Taiwan: Europa “atlantista” ma non suicida

Guerra in Ucraina e crisi di Taiwan, serve una de-escalation prima del baratro 

In questa campagna elettorale, politica estera e riflessioni sulle preoccupanti relazioni tra blocchi contrapposti non hanno cittadinanza. Il Paese è monoliticamente adagiato su atlantismo, europeismo, estensione della NATO, inconsistenza dell'ONU. Al di là della retorica, sporadiche incursioni sugli affari esteri sono solo funzionali a stabilire chi è più atlantista di chi. Parafrasando l'evangelista Luca "Il sabato è affidato a voi, non voi al sabato", diciamo che siamo noi ad essere acriticamente dipendenti da etichette, formule, espressioni e non sono i contenuti di queste ad essere affidate al nostro critico razionalismo.

Fortunatamente il Patto di Varsavia è stato sciolto, non vorremmo correre il rischio di essere considerati, noi fautori del liberalismo, come simpatizzanti di totalizzanti sistemi politici. Non è più il tempo di De Gasperi che, in presenza della Guerra di Corea, espresse pubbliche preoccupazioni per le posizioni USA. Per ampi settori della DC, l'atlantismo doveva pur coniugarsi con l'affermazione di un'Europa autonoma e dignitosa, così come lo fu nel 1985 nella Base di Sigonella nel bel mezzo della crisi degli euromissili americani.

I Cruise erano a Comiso dal 1983 e la politica estera italiana, pur non ricoprendo ruoli significativi, provava a non essere totalmente subalterna alla totalità della strategia americana. Altre relazioni internazionali, altre stature politiche, negli anni '70, in corso la guerra del Vietnam, Henry Kissinger scriveva: "Con tutto questo finii con il voler bene a Gromyko", (gli anni della Casa Bianca pag.631). Con il quadrumvirato Mattarella, Draghi, Meloni, Letta una simile affettuosità verso un avversario sarebbe impensabile, evidentemente tanto più si abbassa la statura tanto più cresce la personale inutile acredine per l’avversario.

Lo scorso 15 agosto, ancora la lucidità di Kissinger: Siamo sull’orlo di una guerra con Russia e Cina per questioni che in parte abbiamo creato noi stessi senza idea di dove dovrebbe portarci. Quello che possiamo fare è non acuire tensioni. Siamo al linguaggio di una superba diplomazia, distante dalla farsesca visita lampo a Taiwan della Nancy Pelosi che ha provocato una rischiosa crisi politico-militare solo per riaffermare, in vista delle elezioni di midterm, un ruolo ormai sbiadito sullo scenario internazionale.

Certo, se il Presidente USA, a seguito della ritirata da Kabul, avverte il bisogno di dichiarare, insistentemente, che gli Stati Uniti aiuteranno Taiwan a difendersi in caso di guerra, non solo lascia spazio ad irresponsabili avventure, ma disconosce il comunicato di Shanghai del 1972 in cui gli Stati Uniti riconoscevano che: Tutti i cinesi su entrambi i lati dello Stretto di Formosa sostengono che esiste una sola Cina e che Taiwan fa parte della Cina. Posizione riaffermata nel 1978, all’avvio delle relazioni diplomatiche, accettando che: non c’è che una Cina e Taiwan fa parte della RP della Cina.

Siamo al grande risico Cina-USA che, come abbiamo evidenziato nell’ultimo anno, è sempre meno velato dal regionale drammatico conflitto Russia-Ucraina a cui, di fatto, sono confusamente interessati solo gli apolitici europeisti, molti dei quali convertiti ad una dogmatica arazionale fedeltà atlantica d’ispirazione nordamericana. Razionalità espressa anche da una parte di taiwanesi che, pur essendo contrari all’unificazione, in occasione della visita della Pelosi hanno manifestato vigorosamente ritenendola foriera di un’inutile crisi nello Stretto. Del resto, non pochi osservatori hanno valutato il viaggio come frutto di un complesso momento della politica interna americana.

Lontano il tempo della dichiarazione di Shanghai in cui gli USA non avevano nessun timore di una Cina sostanzialmente agricola e disarmata. Lontano il tempo in cui la catena di comando della governance statunitense non subiva criticità ad opera di un’ottantaduenne ai margini della contesa politica. Lontano il tempo della tranquillità nel Pacifico. Oggi siamo all’entropia, ad un livellamento disordinato delle forze in campo.

Il Giappone sarà certamente più guardingo, la Corea irrequieta dopo le manovre cinesi, la Nuova Zelanda afferma l’irrinunciabilità delle relazioni bilaterali con la Cina, l’Australia costruisce sottomarini nucleari, l’ASEAN - Associazione che riunisce undici nazioni del Sud-est asiatico – sollecita la fine delle rispettive provocazioni e il superamento delle divisioni. Si fa strada la convinzione che nell’area del Pacifico gli Stati Uniti portano instabilità.

Non appagati dalle alleanze anti-cinese e anti-russa presenti in estremo oriente, Quad: Stati Uniti, Giappone, India e Australia; AUKUS: Stati Uniti, Regno Unito e Australia, il segretario generale della NATO Stoltenberg, in giugno al vertice di Madrid, ha definito l’alleanza sino-russa una “sfida sistemica alla sicurezza globale” e la necessità di saldare le alleanze europee e asiatiche. Ancora più esplicito il Segretario della difesa USA Lloyd Austin: "La Russia è l’obiettivo primario, la minaccia acuta, mentre la Cina è la competizione incalzante. Il conflitto Russia–Ucraina è inequivocabilmente chiarito, meno, molto meno, per gli europeisti sordociechi che, incoscientemente, da un’alleanza difensiva nel quadrante occidentale si ritrovano coinvolti su scenari planetari (vedesi le nostre news del 16.5.2022: "Un pianeta armato ed agguerrito" e del 24.6: "E le Stelle stanno a guardare".

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