Medio Oriente, parla Massolo (Mundys): "Netanyahu punta al Grande Israele. Cisgiordania sotto annessione di fatto, ma non diventerà una nuova Gaza" - Affaritaliani.it

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Ultimo aggiornamento: 15:32

Medio Oriente, parla Massolo (Mundys): "Netanyahu punta al Grande Israele. Cisgiordania sotto annessione di fatto, ma non diventerà una nuova Gaza"

Dalla strategia di Netanyahu al tramonto della soluzione a due Stati, tra pressioni interne e tolleranza americana. L'intervista all’ambasciatore Giampiero Massolo

di Federica Leccese

Massolo (Mundys) ad Affaritaliani: "Netanyahu punta al Grande Israele. Cisgiordania sotto assedio, ma niente nuova Gaza"

Di fronte al tragico scenario mediorientale — con la guerra a Gaza che continua senza sosta e le tensioni in Cisgiordania in pericolosa escalation — si moltiplicano gli interrogativi su cosa accadrà nel prossimo futuro e su quali siano i reali obiettivi degli attori in campo, a cominciare dal Primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Per offrire una lettura chiara e approfondita del quadro politico e diplomatico, Affaritaliani ha intervistato una delle voci più autorevoli in materia: l’ambasciatore Giampiero Massolo, attuale presidente di Mundys. 

Ambasciatore, alla luce degli ultimi sviluppi, qual è secondo lei la reale strategia del governo Netanyahu in Cisgiordania: controllo militare, annessione progressiva o pressione politica interna?

Direi che, in sintesi, l’obiettivo sembra essere quello di prendere tutto ciò che è possibile. Dopo il 7 ottobre, Israele ha abbandonato la strategia basata sulla deterrenza per adottarne una fondata sull’eliminazione diretta delle minacce. Questo ha comportato un impiego esteso della forza militare. Dal punto di vista strettamente militare, questa linea ha ottenuto alcuni risultati: Hezbollah è oggi molto più contenuta, Hamas non rappresenta più una minaccia militare — anche se resta un attore politico e terroristico rilevante —, gli Houthi sono stati in parte neutralizzati, e la questione del nucleare iraniano si è allontanata nel tempo. Anche la situazione in Siria si è trasformata: il ruolo di Assad non è più centrale. Insomma, il Medio Oriente si trova oggi in un equilibrio nuovo, segnato dall’egemonia di Israele

Questo scenario si è sviluppato con la tolleranza dell’amministrazione Trump, che mira alla stabilizzazione della regione e che vorrebbe rilanciare il processo degli Accordi di Abramo. Tuttavia, per riprendere quel percorso, sarebbe necessario porre dei limiti all’azione israeliana — cosa che al momento non avviene. Anzi, Trump sembra accettare una forma di stabilità basata sulla supremazia militare israeliana. All’interno di Israele, poi, la situazione politica è complessa. Il governo attuale si regge anche grazie all’appoggio di componenti nazionaliste e messianiche, che spingono per sfruttare il momento favorevole sul terreno per portare avanti l’idea del “Grande Israele”.

Netanyahu si trova quindi stretto tra queste pressioni interne, dalle quali dipende anche il suo futuro politico e personale, e le richieste della comunità internazionale, che oggi ha fortemente isolato Israele. A tutto questo si aggiunge la questione cruciale degli ostaggi, che pesa enormemente sull’opinione pubblica israeliana. Di fronte a tutto questo, la linea di Netanyahu è quella di continuare: non spingersi forse fino ai limiti voluti dall’ala più estrema del suo governo, ma comunque andare avanti.

L’obiettivo è duplice: eliminare Hamas come attore del futuro Medio Oriente e impedire che il terrorismo jihadista abbia un ruolo politico; e, contemporaneamente, liberare gli ostaggi. È scettico sui negoziati e, quindi, punta soprattutto sull’azione militare, pur riaprendo tavoli diplomatici sotto la pressione internazionale. Ma intanto prosegue i preparativi per l’ingresso nella Striscia e per un’operazione su Gaza City.

La Cisgiordania sembra sempre più instabile: può esplodere un secondo fronte, simile a Gaza?

Le condizioni in Cisgiordania sono molto diverse da quelle di Gaza. Una delle ragioni per cui Israele, già prima del 7 ottobre, si era concentrato molto su questa area era proprio il sospetto — fondato — che ci fossero infiltrazioni di Hamas. Israele temeva che Hamas potesse trasformare anche la Cisgiordania in un nuovo fronte jihadista, in conflitto con l’Autorità Nazionale Palestinese: un'altra Gaza. La situazione in Cisgiordania è nota: da tempo assistiamo a un ritmo crescente di insediamenti israeliani.

Ora si parla persino del consolidamento dell’area E1, un progetto che, di fatto, estende Gerusalemme Est e interrompe la continuità territoriale tra nord e sud della Cisgiordania. Questo significa, nei fatti, eliminare qualsiasi possibilità concreta di uno Stato palestinese con un territorio contiguo. Non vedo quindi una trasformazione della Cisgiordania in una nuova Gaza, ma piuttosto un trend che prosegue da anni e che si sta rafforzando: un’evoluzione che può configurarsi come un’annessione di fatto della Cisgiordania, in prospettiva.

La prospettiva dei due Stati è ancora realistica?

Nei fatti, la prospettiva dei due Stati appare oggi molto indebolita, se non tramontata. Tuttavia, è fondamentale salvaguardare il principio e la prospettiva politica. Se un giorno si dovesse giungere a un nuovo assetto del Medio Oriente non più fondato sulle armi ma sulla politica — e magari proprio attraverso la ripresa degli Accordi di Abramo —, allora ciascuna delle parti dovrà ottenere un risultato politico. Per i palestinesi, questo risultato non potrà che essere il riconoscimento di una prospettiva statuale. Non significa necessariamente riconoscere oggi lo Stato di Palestina — un gesto simbolico ma prematuro, se privo di risvolti concreti —, ma è essenziale non togliere dal tavolo la prospettiva di una statualità palestinese. È un orizzonte che va mantenuto aperto”.

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