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Esteri
Usa 2020, come cambia il futuro delle missioni militari con Trump o con Biden

Alla vigilia delle elezioni statunitensi uno dei temi su cui Donald Trump ha spinto maggiormente è il ritiro di truppe a stelle e strisce dai teatri più infuocati in cui gli Stati Uniti sono presenti sul campo. Ma la sua politica, negli ultimi quattro anni, è stata realmente indirizzata verso l’isolazionismo e volta al far tornare i propri soldati in patria?

Anche se una certa narrazione racconta di quanto gli Stati Uniti si stiano ritirando dentro i propri confini, in termini effettivi durante l’amministrazione Trump non ci sono state diminuzioni nel numero di operatori statunitensi in giro per il mondo. Anzi. Sia in Europa, che in Medioriente e in Africa, giusto per fare gli esempi più significativi e più vicini all’ottica occidentale, le forze armate targate Usa sono addirittura aumentate di qualche migliaio di unità dal 2016. Per questo alla domanda iniziale si può rispondere negativamente. Ad ogni modo la narrazione sopracitata è stata in parte alimentata proprio da Trump, forte del suo slogan “America First” che doveva far breccia nelle famiglie dei soldati e nell’America più profonda.

In compenso però si potrebbe rispondere apparentemente in maniera positiva in due casi, visto che Trump stesso ci si è speso in prima persona: la notizia del ritiro dei soldati Usa (e del loro riposizionamento) dalle basi tedesche, annunciato lo scorso luglio, e gli accordi di pace con i talebani, con la promessa dell’abbandono dell’Afghanistan nel giro di pochi mesi. Nel primo caso, però, le dichiarazioni in cui il presidente degli Stati Uniti ha esplicitato la volontà di ritirare dalla Germania circa 12mila uomini non tengono conto della necessità di ricollocarli in altre basi europee, Polonia in primis, ma anche forse Italia. In questo modo il numero di truppe statunitensi in Europa sarebbe solo leggermente diminuito. L’iniziativa si inserisce in un periodo di forte tensione tra Washington e Berlino, in cui la Casa Bianca è sospettosa e timorosa di un eccessivo rafforzamento tedesco all’interno del contesto europeo.

Per quanto riguarda l’Afghanistan la questione è molto più complessa. Gli Stati Uniti sono presenti nel paese mediorientale da oltre 19 anni, in una vera e propria guerra dai costi altissimi in termini di risorse umane ed economiche, a fronte di pochi o inesistenti risultati tangibili. I colloqui con i talebani e i successivi accordi di pace, sono piuttosto fragili, come evidenziato dagli attacchi e dalle violenze che costantemente avvengono nel paese, sia contro le forze statunitensi sia contro le forze governative afghane. Il prossimo maggio è stato indicato come data della partenza degli ultimi soldati Usa dal territorio afghano, ma ancora non ci sono certezze a riguardo sia per l’instabilità regionale sia per gli sviluppi di politica interna negli Usa.

Le elezioni

Proprio la tornata elettorale che si terrà il 3 novembre negli Stati Uniti potrebbe essere decisiva per il futuro di molti soldati e marines in giro per il mondo. Nel caso in cui Trump dovesse essere rieletto come presidente la politica probabilmente rimarrebbe invariata, andando a premiare almeno in minima parte il desiderio dell’America interna che è stanca di mandare i propri uomini e le proprie donne in campi di battaglia lontani dalla madrepatria. Dall’Afghanistan, scanso sorprese, proseguirebbe il ritiro dei soldati, mentre la questione della Germania verrebbe timidamente portata avanti, anche se come visto non avrebbe solide ripercussioni sul numero di rimpatri. Invece con l’elezione di Joe Biden i ritiri formalmente sarebbero fermati o ridimensionati. Lo scorso settembre il candidato democratico ha infatti ribadito la sua volontà, nel caso venisse eletto, di far rimanere un ridotto contingente in Afghanistan di circa 1500-2000 unità per continuare la guerra al terrorismo. Biden inoltre molto probabilmente rivedrebbe la decisione di Trump sulle truppe delle basi tedesche, anche perchè i rapporti con la Germania avrebbero più possibilità di “riappacificazione”.

Gli impegni di una potenza egemone

Che gli Stati Uniti siano la vera potenza globale presente oggi sulla Terra è risaputo, nonostante la più recente rincorsa intrapresa dalla Cina di Xi Jinping per ridurre il gap. Il principale fattore che lo dimostra è proprio la proiezione militare e strategica statunitense nel mondo, che almeno per il momento non ha rivali. Mantenere una presenza fisica e militare in tutti i continenti è fondamentale per Washington per garantirsi il controllo dei mari, per evitare che gli ipotetici spazi vuoti vengano “riempiti” da altre potenze mondiali o regionali e peggio ancora per scongiurare la possibilità di essere attaccati da altri attori. Per questo le basi americane sono attive in tutto il mondo, le navi e le portaerei vigilano ogni oceano e ogni rotta sensibile.

E’ quasi uno sforzo obbligato più che una reale volontà, che infatti si scontra con l’idea di buona parte della popolazione statunitense sempre più desiderosa di focalizzarsi sulla vita entro i confini nazionali. Anche questo sentimento, tra le altre infinite variabili, potrebbe avere un peso sul voto negli Stati Uniti del 3 novembre.

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