Il balordo di Luca Imperiale, la recensione
Luca Imperiale con “Il balordo” entra in scena e vi rimane fino alla fine. È un libro intenso. È una silloge da saggiare con cautela
Quando credi che il mondo terreno è quello in cui vivi “Il balordo” ti conduce su altre vie. La recensione
“Un teatro si apre, pagina dopo pagina; un monologare fitto, accorato, intenso fa il rosario degli incontri, tesse la preghiera della separazione” sono le parole di Mauro Marino che svettano nell’introduzione del libro “Il balordo”, di Luca Imperiale per i tipi di “Spagine”, Fondo Verri-Lecce. Si tratta di un teatro dell’essere e dell’apparire nel quale Imperiale si propone come protagonista adottando la maschera del “balordo”: una posizione forse un po’ comoda per non far attutire colpi che potrebbero giungere da ogni luogo, anche dalla sua anima. Così il lettore procede tra queste che Marino non chiama “poesie” ma monologhi non urlati, semmai comunicati a voce alta, qualcuno certamente ascolterà.
Luca Imperiale con “Il balordo” entra in scena e vi rimane fino alla fine, fino a che dai primi versi di un bambino giunge a liberare la propria anima e ad acciuffare la libertà. È poesia quando senti sussurrare: “È soltanto un corpo umano, / una perfezione imperfetta / se ci infili dentro una strana esigenza / di sorridere, di respirare, di versare litri di diamanti d’acqua” o ancora quando leggi: “Fiaccole nei giardini di Nerone, / di un qualsiasi Nerone orgoglioso della festa, / carne alla brace, / ride smarrendo il fiato prima di una lama alla schiena, / prima della stretta ai fianchi / di una fiaccola santa oppure omicida”. Questo “balordo” sembra veleggiare tra bene e male, tra buono e cattivo, personifica le anime dei protagonisti del romanzo di Dostoevskij “I fratelli Karamazov” sempre presenti nella scena sebbene non strabordanti. Ci sono. Vivono. Evidenziano tratteggiando le specificità dell’umano. Azzardo: la poesia di Imperiale è un oggettivare il sacro e il profano nello scenario di un ‘balordo egumeno’.
L’Autore tuttavia presenta i suoi colori. Dispone sulla tavolozza descrizioni contrapposte e variopinte di vita e morte, di sole e luna, di aria e mare. Non possono esserci incomprensioni perché ogni immagine è descritta con adamantina vitalità: scorrono i movimenti, il tempo è cadenzato da risa e pianti e in un palcoscenico così vasto vi è anche un rifugio dove rintanarsi nel caso in cui le “claque” potrebbero disturbare. In fondo, Imperiale si rifugia proprio qui: in questa scogliera “per le allegrie poco felici, / per le felicità percepite, ma dell’altro mondo”. Cammina scalzo, non teme di tagliarsi, sa destreggiarsi con parole “di onde schiumose”: balordo del logos.
Non tradisce la sua presenza né incombe perché a prevalere è il coraggio di costruire identità, di sorprendere fra il sacro o l’esoterico. Quando credi che il mondo terreno è quello in cui vivi “Il balordo” ti conduce su altre vie. Perciò si assiste in un tempo che non ha tempo, in un luogo che non è luogo e fra tante maschere si può scegliere di sostare o scomparire. In sostanza, le relazioni nascono quando c’è l’incontro, nonché dialogo, ma se il lettore sceglie di non voler parlare e assistere in silenzio può farlo, tanto i balordi sono tanti, così le maschere, ognuno ha libertà di essere, apparire o non esserci affatto.Luca Imperiale c’è. Nel suo lavoro di prosa e poesia, di solipsismi e compagnie, nel teatro della vita Imperiale intende esserci con garbo e libero di lasciare tracce come un “pugno vuoto in un miraggio senza fiato” oppure “come le lune con le loro vene “. È un libro intenso. È una silloge da saggiare con cautela. Da ascoltare, da guardare. Sono coinvolti tutti i sensi, forse manca quello del tatto ma penserà il verso a toccare il lettore: a spingerlo, a sfiorarlo, ad abbracciarlo, a farci l’amore come farebbe una “sirena sposa” o una “fata bianca”.
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