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La ragazza che sfidò Dio con la penna in mano: Flannery O’Connor secondo Romana Petri
È uscito per Mondadori il nuovo romanzo della Petri, “La ragazza di Savannah”, finalista dell’Orbetello Book Prize 2025

Nel panorama narrativo di Romana Petri, La ragazza di Savannah si impone come una vetta poetica e meditativa, un’opera che non solo raccoglie, ma rilancia la cifra più profonda della sua scrittura: l’indagine sull’umano, colto nel crocevia tra la vocazione e la rinuncia. Dopo essersi confrontata con le ombre eroiche di Saint-Exupéry in Rubare la notte, la Petri torna a interrogare la biografia come officina del romanzo, e lo fa nel centenario della nascita di Flannery O’Connor, icona letteraria del Novecento statunitense, dando vita a un affresco che rifiuta l’agiografia e preferisce lo scandaglio impietoso e amorevole della fragilità.

Flannery, Mary Flan per chi le fu vicino, nacque a Savannah nel 1925, figlia unica di un padre amorevole e di una madre severa. Una bambina precoce, celebre per aver insegnato a un pollo a camminare all’indietro, che visse la scrittura come un pellegrinaggio interiore. «Mio Signore. Vi metto nero su bianco che diventerò una scrittrice. Se voi lo vorrete» scriveva nel suo diario di preghiera. La sua fede non fu mai conforto, ma attrito; non rifugio, bensì sacrificio. Da questo fervore scomodo nasce una delle voci più originali della letteratura americana, capace di distillare redenzione nel grottesco e senso nella deformità.
La Petri ce la restituisce con occhio clinico e pietoso. Flannery è una giovane donna affetta da lupus, la stessa malattia che uccise il padre, costretta a vivere nella fattoria Andalusia, nel cuore della Georgia rurale. Ma questa reclusione geografica diventa centro propulsivo di una creatività selvaggia. Tra polli, pavoni, torte di mele grondanti burro e biscotti alla cannella, Mary Flan costruisce il suo impero di parole, oppone al destino la compostezza orgogliosa di chi si sa prescelta da Dio per raccontare il mondo. E la Petri ne fa un personaggio tragico e spavaldo, che scrive «per restituire spazio e dignità a chi si sente smarrito», come lei stessa afferma.
Questa narrazione biografica, però, non è mai cronaca. È reinvenzione fedele. L’autrice rilegge lettere, racconti, interviste, e li trasmuta in romanzo, dando voce alla complessità di una donna “pietosa fino all’empietà”, come lei stessa la definisce. Una donna che combatte la marginalità del corpo con l’eccellenza della mente. In pagine dense di silenzi e morsi, la protagonista emerge in tutta la sua grandezza segnata: religiosa e laica, concreta e visionaria, capace di mandare al diavolo i lettori “che vogliono il finalino edificante”, perché il dolore, per lei, è condizione stessa della grazia.
Romana Petri ha scelto questo momento per raccontare O’Connor non solo in coincidenza con l’anniversario, ma per rispondere a un’urgenza etica e letteraria: salvare dall’oblio chi ha avuto il coraggio di resistere, nella carne e nella parola. La biografia romanzata è quindi un atto di restituzione, ma anche di lotta contro la dimenticanza, e ogni pagina gronda di ammirazione lucida. “Non edulcoro niente” pare suggerire la scrittrice romana “perché la verità ha già in sé abbastanza luce”.

La fattoria di Andalusia non è soltanto uno scenario, è un contro-altare domestico, un luogo in cui si celebra l’Eucaristia quotidiana del sacrificio. Lì, tra volatili e stoviglie, Flannery si consuma: scrive, mangia, legge e rifiuta il compromesso. Mette sempre in discussione le verità acquisite. Il cibo – le bistecche al sangue, i cobbler di pesche, le focacce ripiene – diventa sublimazione e sostituzione dell’amore. “Il cibo era per lei sempre una festa” scrive Petri sul Corriere della Sera “e non trovava giusto che una volta arrivato in tavola bisognasse perdere tempo a pregare”.
Accanto a lei, nel perimetro di una vita sempre troppo stretta, ruotano figure emblematiche: la madre Regina, dura e protettiva, incapace di comprendere il genio della figlia ma devota nel sostenerla; gli amici di penna, con cui Flannery coltiva relazioni più intense di quelle possibili nella realtà; il padre, ombra viva che ritorna nella malattia e nella memoria. Gli amori, invece, sono sospiri interrotti, corrispondenze spezzate, sogni mai incarnati. Nessun uomo si innamora di lei. Eppure, lei ama. Ama la carne, ama Dio, ama la scrittura.
Petri ha dichiarato: “Ho inventato tutto, pur restando fedele a ogni cosa”. Ed è proprio in questa tensione che il romanzo trova il suo respiro più profondo. La ragazza di Savannah, edito da Mondadori e disponibile anche su Audible letto egregiamente da Vanmessa Korn, non è solo il ritratto di una scrittrice straordinaria, è un romanzo meta-letterario che mette in scena la fatica del creare. La frase perfetta non arriva da sola: è frutto di riscritture, lacerazioni, domande. “È un libro troppo buono per non poter essere migliore” scrive Flannery a proposito di un suo testo, ed è una lezione per chiunque creda nel potere della parola.
Accolto calorosamente dalla critica, finalista all’Orbetello Book Prize 2025, il romanzo ha saputo conquistare lettori e studiosi, diventando rapidamente anche un audiolibro. È stato definito “sfolgorante” da Satisfiction, un libro in cui “la narrazione è colma di ardore” e dove “la scrittura è sacrificio, sentimento, fuga e abbandono”.
Con questa opera, Romana Petri ci offre molto più di un omaggio: ci consegna la parabola vibrante di una donna che non si è mai arresa. E che, proprio nella sua ostinata fragilità, ha saputo sfidare il cielo e vincere con l’unica arma concessale: la parola.
«Doveva affrettarsi ad accettare l’idea, non aveva tempo da perdere. Se la malattia le attaccava le forze, lei doveva acuire la capacità creativa e sfruttare i momenti in cui poteva farlo. Doveva imparare a dosarsi, ma tenendo il cervello sempre acceso. Doveva avere sempre un quaderno a portata di mano dove prendere nota di un’idea da sviluppare in un momento migliore. Doveva sforzarsi di vedere quella nuova realtà non come un tempo di rinuncia, ma come un’opportunità di vivere in altro modo, di adattarsi al cambiamento. La faceva ridere l’idea di volere il male per essere maggiormente amati da Dio. Non era quella la questione. Ma doveva sforzarsi di capire che la realtà era fatta anche di male e di privazioni. Sono traversie che incontriamo nel corso della vita, e quando le incontriamo dobbiamo affrontarle con il polso fermo. Come fossero rumorosi studentelli da tenere a bada».