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Vittorino Curci, Poesie (2020-1997): quell’urgente bisogno del ricordo

Un’autobiografia della parola manifesta, una comunicazione del sé appare la densa e fitta raccolta di “Poesie (2020-1997)”, di Vittorino Curci, per i tipi  della casa editrice La Vita Felice. Versi maturi, ben fissati come le travi di un edificio la cui necessità di decostruirli per comprendere la poesia è necessaria. Curci raccoglie reticenze, liturgie, il quotidiano, la fenomenologia del cibo e delle stagioni, lo scandirsi dei giorni, del tempo che passa, la nostalgia di una resistenza dell’anima logorata dagli accadimenti.

Secondo Herder la poesia è la lingua-madre del genere umano. Una lingua universale capace di socializzarsi, di essere chiara e comprensibile a tutti proprio come è “Poesie (2020-1997)”, sede di una geografia di parole e di sentimenti agile per garantire una chiara conoscenza. Non tutto però è svelato.

L’Autore terrà in serbo qualche “segreto”: l’emozione e la commozione nel denudarsi e rilevare le verità. In questa silloge si naviga seguendo il moto delle onde, la corrente, il porto indicato da Vittorino Curci. Si incontrano versi, prosa, “pietre per fare come gli alberi che crescono verso il cielo” (p. 118), così come “mense e dormitori pubblici. utopie / della lingua. i cani scalpitanti fanno / un giro del palazzo (p. 69): tutto è minuscolo, come se le sillabe si piegassero in segno di devozione alla poesia e i punti fungessero da pause per ossigenare il verso, oppure dopo aver rivolto uno sguardo all’intero corpo si potrebbe immaginare un paesaggio autunnale senza “metamorfosi ipnotiche” o fughe “nell’alfabeto dei sensi”.

Al riguardo, Milo De Angelis, amico fraterno dell’Autore, scrive nella prefazione: «il fascino di questa poesia è un soffio polifonico che raccoglie in sé diverse tonalità – dall’elegia alla riflessione sapiente, dall’invettiva alla supplica – per ricrearsi continuamente dalle sue ceneri, che sono le ceneri personali ma anche quelle della Storia», ed è evidente che il carattere sacrale di una visione ampia dell’individuale che abbraccia l’universale tracciata da De Angelis e vissuta da Curci non si può certo negare, ma si debba al contrario rimarcare con gioia.        

In “Poesie (2020-1997)”, di Vittorino Curci si avverte l’urgente bisogno del ricordo, di scrivere quei momenti di quotidiano vissuto perché diventi memoria solida da condividere e custodire, quell’infanzia che non si accetta di perdere ma la si acciuffa in un grappolo di versi di-vini, festeggiando con Bacco il fanciullo ancora in vita. Si legge: «palma e dorso della stessa mano / l’autunno cancellava i sogni / avvolgendo le chiome arruffate dei ragazzi / con bende mortali» (p. 130), nell’essere mortale il desiderio con la poesia di rendere immortale, quasi eterno quel “bambino”.

La malinconia di un sorriso trafugato da sconfitte dove in ogni stagione si cerca la verità dell’inchiostro ed è ciò che appare nitido a Curci: la ricerca della verità con la poesia e nella poesia. Così ancora: «Tu trovi incroci / quando i piedi / hanno finito le strade. / Uno dopo l’altro i pezzetti / platee dissipate in un soffio / per mille varianti per scatole contigue / e tonfi / sulle rovine del suono» (p. 145). Giunto a conclusione, qualcuno forse si chiederà “come ha vissuto l’infanzia Vittorino Curci?”, o - come è più ovvio - non si porrà affatto tale domanda perché l’avrà vissuta anche lui con l’Autore. L’infanzia d’altronde è il presente, la necessità di esserci insieme alla giovinezza e alla vecchiaia, per comprendere la complessità della vita: l’αἰών, il tempo eterno. Lo sosteneva anche Aristotele.

E in queste atmosfere si respira persino il fumo della cenere che è diventato parte delle membra di un corpo emaciato sopravvissuto ai ricordi della sua fanciullezza.            

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