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Marketing
Marketing e politicizzazione: intervista ad Alberto Dal Sasso (IAA Italy)

di Lorenzo Zacchetti

 

Si fa sempre più stretto l'abbraccio tra il marketing di prodotto e i temi sociali e politici. E' il fenomeno definito “politicizzazione” dai comunicatori e, per approfondire il tema, abbiamo incontrato Alberto Dal Sasso, Managing Director di TAM Adintel Nielsen, nonché Presidente della di IAA Italy, che ha sede a Milano.

IAA sta per International Advertising Association ed è la principale associazione di esperti di marketing e comunicazione a livello globale, attiva in 50 paesi. La sede centrale è negli Stati Uniti.

Come spesso accade in questo settore, le tendenze che nascono al di là dell'Oceano poi si manifestano anche in Europa e, come ci spiega Alberto Dal Sasso, il fenomeno della “politicization” ha avuto una pietra miliare nell'avvento di Donald Trump alla guida del Paese leader del mondo occidentale.

“Diverse analisi convergono nell'evidenziare come la sua salita al potere abbia cambiato il modo di concepire la politica” - spiega Dal Sasso - “Non esprimo giudizi di merito, ma una serie di atteggiamenti comunicativi sono stati sdoganati, mentre prima era prevalente una forma di comunicazione molto più edulcorata. Lo stile di Trump, decisamente netto, ha prodotto fenomeni di imitazione anche nel modo di pensare, anche da parte del pubblico che lo segue”.

Nella comunicazione di Trump, colpisce anche l'uso quasi compulsivo di Twitter...
“Trump ha davvero creato uno spartiacque tra passato e futuro, anche cavalcando un'onda che già esisteva. I social network c'erano ben prima della sua avventura politica e, come noto, contribuiscono a polarizzare il giudizio, specialmente in senso negativo. Trump si è collocato in questa scia e, vista la posizione che occupa, ha prodotto una reazione in tutta la società, compreso chi comunica per professione: anche i brand hanno il problema di capire come si devono muovere”

In precedenza, chiunque tenesse alla propria immagine pubblica (e quindi i brand, ma anche gli sportivi e gli artisti) si guardavano bene dal prendere posizioni politiche nette. Cosa è cambiato?
“Una ricerca di Edelman sul 'trust' fornisce delle indicazioni veramente molto interessanti da questo punto di vista. Riassumendone molto il contenuto, si può dire che i nostri comportamenti d'acquisto incidano sugli aspetti politico-sociali ancora di più delle nostre scelte al momento del voto. Le aziende, quindi, per certi versi possono influenzare la società anche più dei governi. Quindi devono prendere una posizione sui temi che riguardano tutti. Fare delle scelte di campo è imprescindibile, anche perché una non-decisione è comunque una decisione; una non-posizione è una presa di posizione. Ciò fa sì che i brand stiano ragionando con sempre maggiore attenzione su quali posizioni debbano assumere, per avere 'trust' nei confronti dei propri consumatori”.

Questo è un tema interessante: si può dire che la qualità del prodotto possa arrivare fino a un certo punto, ma poi per vendere si debba essere capaci di trasmettere uno stile di vita?
“E' esattamente così. La già citata ricerca di Edelman dice che il 47% degli intervistati si fida del brand per la sua qualità, il 55% perchè viene trattato bene dal brand nel post-vendita, mentre addirittura il 68% dichiara di acquistare preferibilmente quei brand dai quali si sente più rappresentato e che hanno un impatto positivo sulla società! Le conseguenze sono molto rilevanti: la qualità è una base di partenza, sulla quale però devo lavorare, sia trattando bene il mio consumatore che facendo delle azioni che siano positive per la qualità della vita. È un impegno enorme per qualunque tipo di marchio e soprattutto per le multinazionali, che hanno a che fare con contesti differenti e quindi con idee diverse di cosa sia positivo per la società”.

Come si scelgono le posizioni da prendere sul piano politico? E' un mero calcolo di opportunità o bisogna aderire veramente ai temi in questione?
“La coerenza è fondamentale. Non ci si inventa sostenitori di una posizione perché va di moda: così non funziona. Il rischio del 'pinkwashing' o del 'greenwashing' è molto alto. Bisogna lavorare nel tempo, attraverso una strategia che porti il brand a sostenere una posizione con credibilità. Non posso certo parlare di diritti umani, se nel contempo faccio produrre i palloni dai bambini sfruttati nel sud-est asiatico! I brand sono parte della società e devono posizionarsi, comunicare e vivere in maniera coerente. Con il termine 'vivere' intendo dire che bisogna adottare in tutte le aree della propria value chain una posizione coerente, anche perché oggi è molto facile per il consumatore trovare delle crepe, se esistono”

Alcune scelte di campo sono in effetti intuitive. Ad esempio quando Nike ha scelto un testimonial come Colin Kaepernick, atleta dichiaramente avversario delle politiche di Trump, aveva dalla sua la credibilità di un brand protagonista del mondo dello sport, da sempre latore di valori di inclusione e parità sociale. Come ci si comporta su temi più divisivi? Bisogna forse introdurre nuove professionalità, dei consulenti politici per le aziende?
“Prendere un consulente 'politico' per il proprio marketing deve essere la parte finale di un percorso, nel quale l'azienda prima decide di assumere una posizione e poi capisce come debba muoversi in merito. Sono scelte delicate e potenzialmente anche pericolose. E' la stessa cosa che riguarda la scelta del testimonial, come ci dimostrano i tanti esempi che riempiono i testi di marketing: il testimonial veicola dei valori, ma è anche una persona e quindi può commettere degli errori. Soprattutto quando il testimonial è molto forte, l'azienda si trova a doverne seguire il comportamento: questo a volte paga e a volte rappresenta un rischio. L'importante, anche se potrà sembrare banale, è che l'azienda sappia ascoltare bene i propri consumatori, che sempre di più esprimono ciò che desiderano dall'azienda stessa. La comunicazione diretta a due vie, favorita dai social, costringe le aziende ad avere maggiore attenzione verso questi aspetti. Se ci si rivolge a un target che ha dei valori specifici, è ovvio che si punti su quelli, senza timore di essere divisivi”

Forse è anche il caso di eliminare l'accezione negativa che solitamente diamo al termine “divisivo”?
“Sì, perché è il tempo delle scelte, anche coraggiose. Forse nei Paesi anglosassoni viene più spontaneo scegliere da che parte stare, visto che è tutto bianco o nero, mentre in Italia siamo sempre pieni di sfumature, attenti a non scontentare mai nessuno. Le aziende devono affrontare questo tema, perché fanno parte del mondo e può capitare a qualunque imprenditore di essere intervistato rispetto a un particolare tema sociale. E se dai la risposta sbagliata, come capitò a Guido Barilla quando fu incalzato da Giuseppe Cruciani sulle famiglie omosessuali, ne nascono dei grossi problemi”.

Veniamo appunto alle aziende italiane: l'impressione è che i nostri brand non stiano lavorando molto sul tema della politicizzazione. Sbaglio?
“Ciò si lega anche al fatto che, in tutti i ranking, i brand principali sono quelli anglosassoni. Però anche in Italia abbiamo dei marchi di tutto rispetto, da Ferrero alla stessa Barilla, senza dimenticare FCA, nonostante le sue recenti mutazioni. Poi ci sono tutti i brand del lusso, dell'automobile, l'alta gamma... Non a caso, noi di IAA Italy abbiamo ricevuto dalla direzione centrale americana l'incarico di occuparci dei brand di alta gamma, perché è un asset molto forte del nostro Paese. Il tema esiste quindi anche da noi: ad esempio, i marchi del lusso legati alla pelletteria stanno affrontando il tema della sostenibilità. Sicuramente non è stato ancora bene approfondito, ma anche in Italia è diventato necessario fare delle scelte, perché gli eventi sociopolitici riguardano tutti”

La sostenibilità è uno dei pochi temi che sembrano mettere tutti d'accordo. E' davvero così?
“In parte. Intanto, diciamo che proprio il fatto di essere un tema unificante ne fa un argomento meno distintivo per chi lo sposa. E poi l'adesione all'argomento è meno scontata di quanto si pensi. Le ricerche dimostrano che i temi veramente unificanti sono altri: i diritti degli immigrati, la non-discriminazione razziale, la riforma della giustizia, la sicurezza, la parità di genere (soprattutto nelle retribuzioni) e i diritti civili. Ovviamente in alcune aree del mondo c'è più sensibilità rispetto ad altre, ma le multinazionali devono interfacciarsi con questa complessità. Non è detto, quindi, che il filone-Greta sia centrale anche nei prossimi anni”

Come cambia la sensibilità nei confronti dell'emergenza ambientale tra i diversi gruppi sociali?
“Anche su questo tema, c'è una forte polarizzazione. Lo dimostra una survey condotta da Lippincor su circa 4.000 consumatori americani, suddivisa in cluster legati alle generazioni: Baby Bomber, X Generation, Z Generation e Millennials. Su alcuni argomenti, le differenze sono impressionanti. I giovani considerano il tema del 'Green' molto più importante di quanto lo sia per le generazioni precedenti. Rispetto al giudizio su Trump e le sue politiche ambientali, decisamente conservatrici, le differenze arrivano anche a 15-16 punti percentuali tra chi le considera negative (i giovani) e chi invece le sostiene (i più adulti). Ci sono anche differenze all'interno dei singoli cluster, ma soprattutto colpisce come la generazione dei Baby Boomer, cresciuta negli anni '60 in un clima di contestazione nei confronti dell'estabilishment, abbia una posizione così netta. Mi ha molto stupito rilevare questa dicotomia con le generazioni succssive”

Il linguaggio della politica è sempre più semplicistico, talvolta rozzo. Bisogna adeguare anche la comunicazione commerciale?
“Mi viene in mente lo spot di una azienda di abbigliamento sportivo americana, nella quale un sosia di Trump veniva malmenato. Avendo una clientela prevalentemente femminile, l'azienda ha scelto di protestare in questo modo contro le restrizioni date dal Presidente USA all'aborto. E ha avuto ragione, perché ha aumentato le vendite. In generale, il messaggio deve essere netto: se ci si incastra in difficili distinzioni tipo 'sono favorevole all'immigrazione, ma va gestita bene', si rischia di non essere efficaci. Ci sono poi dei casi fortuiti, come la foto di Boris Johnson che festeggiava la sua vittoria elettorale con una lattina di Budweiser in primo piano: in quel caso il brand si è trovato alla ribalta della contesa politica senza volerlo. Alcuni brand sono stati in grado di sfruttare questi incidenti di percorso grazie all'ironia, ma è un'altro tema”

A proposito di incidenti di percorso: è tale l'ormai famosa foto delle Sardine con Benetton e Oliviero Toscani?
“Beh, credo proprio che le Sardine ci siano cascate, per ingenuità. L'ingenuità è un asset sul quale dovrebbero lavorare. Da parte di Benetton credo invece che l'immagine sia stata voluta, anche perché ci ha riportato all'immagine aziendale con la quale sono cresciute le persone della mia generazione: un brand moderno, aperto alla società e al cambiamento. Se ne parlo con mio figlio oggi, invece, gli viene subito in mente la vicende del Ponte Morandi. Per questo credo che per molti quella immagine abbia rappresentato un cortocircuito comunicativo”.

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    Tags:
    marketing; politicizzazione; alberto dal sasso; iaa italy; nielsen

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