Terzo mandato, regionali e non solo: perché il centro resiste nei territori (ma manca ai partiti) - Affaritaliani.it

Politica

Terzo mandato, regionali e non solo: perché il centro resiste nei territori (ma manca ai partiti)

Una riflessione sulla rappresentanza civica

di Raffaele Volpi

Il commento 

Nel panorama politico italiano contemporaneo si moltiplicano i tentativi di ridefinire l’identità del cosiddetto “centro”. Si tratta di un’area elettorale ampia, ma sfuggente, alla quale si guarda con crescente interesse nei momenti in cui si esaurisce la spinta dei poli o si indebolisce la capacità di aggregazione dei partiti tradizionali. Tuttavia, ciò che emerge con forza da tutte le rilevazioni più recenti è che oltre un terzo del corpo elettorale oggi non si reca più alle urne. È il dato più significativo della crisi della rappresentanza, e riguarda in particolare una fascia attiva e consapevole della popolazione, che non si riconosce in nessuno degli schieramenti esistenti, ma non per questo si rifugia nell’antipolitica.

Questa porzione silenziosa del Paese si colloca spesso nel cuore sociale ed economico dell’Italia: professionisti, imprenditori, amministratori, corpi intermedi, cittadini impegnati nei territori, portatori di valori che rimandano alla cultura della responsabilità, alla prossimità istituzionale, alla sobrietà della buona amministrazione. Si tratta di un universo che potremmo definire come “centro civico diffuso”, e che trova oggi la sua rappresentanza più concreta non nei partiti, ma nei territori.

In questo senso, i presidenti di Regione rappresentano un punto d’osservazione privilegiato. La loro figura istituzionale si è evoluta ben oltre il ruolo tecnico o amministrativo: sono diventati interlocutori permanenti dei governi centrali, attori della programmazione strategica, e – soprattutto – punti di riferimento civici per milioni di cittadini, che li riconoscono come garanti di stabilità, autonomia e capacità di governo.

In molte realtà italiane, i governatori hanno saputo interpretare un modello politico fondato su tre pilastri coerenti: il solidarismo, inteso come cura del legame sociale e delle fragilità locali; il federalismo, nella sua declinazione moderna, responsabile, capace di generare efficienza e prossimità decisionale; la responsabilità pubblica, come stile sobrio e rigoroso nel rapporto tra istituzioni e cittadini. Questi elementi non compongono una teoria astratta, ma rappresentano una pratica politica riconosciuta, misurabile e in larga parte trasversale rispetto agli attuali schieramenti.

La discussione in corso su temi come il limite al terzo mandato consecutivo va letta anche in questa chiave. Al di là del giudizio normativo o delle singole posizioni, il punto che merita attenzione è la qualità della rappresentanza locale che oggi viene generata da queste figure istituzionali. Il consenso che si consolida nel tempo attorno ad alcuni presidenti di Regione – e in misura minore anche a sindaci di città metropolitane – non è il risultato di logiche personalistiche, ma di un riconoscimento sostanziale di competenza, affidabilità e capacità di visione territoriale.

Questa dinamica offre spunti importanti per la riflessione politologica. In particolare, evidenzia la crisi della rappresentanza verticale – partiti, coalizioni, leadership nazionali – e il contestuale rafforzamento della rappresentanza orizzontale, fondata sul territorio, sulla fiducia diretta, sull’efficacia delle politiche pubbliche locali. È in questo spazio che potrebbe emergere una nuova forma di centro, non costruito a tavolino, ma riconosciuto nella prassi amministrativa e civile.

Un centro che non si definisce per opposizione ai poli ideologici, ma per funzione: quella di mediare, organizzare, costruire. Che non si esaurisce nella collocazione parlamentare, ma si esprime nella capacità di leggere la complessità, attivare risorse, coordinare reti. Un centro che nasce dai valori di equilibrio istituzionale, sobrietà amministrativa, coesione sociale, autonomia responsabile, e che proprio per questo è rimasto sinora privo di una rappresentanza politica organica.

La domanda che emerge, dunque, è se non sia il momento di ripensare l’idea stessa di centro, alla luce dei nuovi equilibri istituzionali e sociali. Se non sia più utile cercare nei territori – e non nelle formule di laboratorio – l’embrione di una nuova cultura politica, capace di rimettere insieme efficienza pubblica, partecipazione civile e visione nazionale.

Non si tratta di immaginare una traslazione automatica dei presidenti di Regione in figure politiche nazionali. Si tratta piuttosto di riconoscere che in quelle esperienze locali si trova oggi la materia prima per una rigenerazione autentica del campo moderato, fondata non sull’opportunità tattica, ma su un impianto etico, istituzionale e comunitario coerente con le esigenze di una democrazia contemporanea.

Forse il centro che la politica cerca da tempo esiste già: non è ancora un partito, ma è già un fatto politico. È territoriale, civile, coerente. E attende solo di essere riconosciuto per ciò che realmente è.

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