Lo Stato stratega: Golden Power, partecipazioni pubbliche e sovranità economica nel tempo della competizione globale - Affaritaliani.it

Politica

Lo Stato stratega: Golden Power, partecipazioni pubbliche e sovranità economica nel tempo della competizione globale

La partecipazione pubblica non è più solo un retaggio, ma una leva strategica. La domanda resta: Stato investitore o soggetto strategico? Il commento

di Raffaele Volpi

Golden Power e partecipazioni pubbliche: la nuova frontiera della sovranità italiana

Nel tempo della competizione globale, la sovranità economica non è più una questione ideologica ma una necessità concreta. E lo Stato, spesso accusato di ingerenza o immobilismo, è tornato al centro della scena come attore, regolatore, garante. Non più semplice spettatore delle dinamiche di mercato, ma soggetto attivo in grado di indirizzare, bloccare o sostenere operazioni economiche di rilievo strategico. Un ruolo che, se ben esercitato, può rappresentare un presidio di interesse nazionale e di benessere collettivo.

Due sono gli strumenti attraverso cui questo ritorno si è manifestato con forza: la partecipazione diretta in aziende chiave – soprattutto bancarie e infrastrutturali – e l’esercizio della cosiddetta Golden Power, ovvero la facoltà del governo di intervenire su operazioni societarie ritenute sensibili per la sicurezza nazionale. Si tratta di due piani diversi, ma sempre più intersecati. E oggi, per capire davvero la postura economica di un Paese come l’Italia, occorre guardarli insieme. Negli ultimi mesi abbiamo assistito a un rinnovato protagonismo dello Stato su entrambi i fronti. Da un lato, il mantenimento della quota pubblica in MPS, con il suo significato non solo finanziario ma sistemico. Dall’altro, l’utilizzo della Golden Power per bloccare o condizionare acquisizioni estere in settori tecnologici avanzati – cybersecurity, space economy, sensoristica, microelettronica – fino a toccare anche l’industria della difesa.

Una scelta che segna la fine della stagione dell’ingenuità, quando si cedevano asset strategici con leggerezza, spesso sotto la pressione del debito pubblico o della miopia contabile. Lo abbiamo visto anche nelle polemiche recenti su aziende in crisi come l’ex Ilva: una grande acciaieria ormai fuori mercato, ma con potenziale ancora cruciale per la filiera industriale nazionale. In questo contesto, lo Stato non può limitarsi a gestire le perdite o a vendere al miglior offerente. Deve decidere se quella realtà – pur malata – rappresenti un pezzo di infrastruttura industriale da salvaguardare per le generazioni future.

Il valore non è solo nei conti: è nella posizione, nel know-how, nella filiera, nel lavoro che può tornare a generare. Il punto è che la partecipazione pubblica non è più solo un’eredità del passato, ma una leva per costruire il futuro. E qui nasce un’altra grande questione: lo Stato azionista deve comportarsi come un investitore puramente finanziario, attento solo a dividendi e valorizzazioni, oppure può e deve agire come soggetto strategico, capace di orientare le scelte industriali, proteggere competenze, favorire sinergie? La risposta sta nella politica, nel senso più alto del termine. Perché difendere l’interesse nazionale non significa chiudersi, ma scegliere. Scegliere in quali settori essere presenti. Scegliere con chi allearsi. Scegliere quando cedere e quando invece raddoppiare gli sforzi. Non è autarchia, ma consapevolezza.

È comprensione che il mercato da solo non garantisce l’equilibrio fra efficienza e resilienza. Che ci sono momenti in cui lo Stato deve porsi non contro il mercato, ma sopra, come architrave di una visione di lungo periodo. Il caso della Golden Power ne è l’emblema. L’Italia è tra i Paesi europei che la stanno utilizzando con maggior frequenza, soprattutto dopo l’emergenza pandemica. Settori come la difesa, le telecomunicazioni, l’energia, ma anche il cloud, i semiconduttori, le biotecnologie, sono oggi considerati fondamentali per la sicurezza nazionale. E non a torto. In un mondo in cui la competizione è anche tecnologica, possedere certe capacità equivale a essere liberi. Rinunciare a esse significa dipendere da altri.

Ma la Golden Power non può essere esercitata in modo arbitrario. Deve essere coerente con una strategia industriale complessiva. Se si blocca un’acquisizione estera, è giusto chiedersi: qual è l’alternativa nazionale? Qual è il progetto industriale che giustifica il no? Ecco perché serve una nuova cultura della governance pubblica: fatta di trasparenza, di competenze, di responsabilità. Per evitare che la presenza dello Stato sia vissuta come peso o come ostacolo, ma come garanzia di stabilità e di equità. Anche nel settore bancario questa dialettica è evidente. L’idea di un terzo polo bancario non nasce dal desiderio di creare un “campione nazionale” fine a sé stesso, ma dalla consapevolezza che un sistema troppo concentrato rischia di impoverire i territori e di lasciare fuori intere fasce di economia reale.

Lo Stato, in questo senso, può avere un ruolo di aggregatore, di facilitatore, di garante. Ma deve avere una visione. E deve saper distinguere tra interventismo politico e presidio strategico. In conclusione, siamo di fronte a un bivio. Possiamo tornare a un capitalismo statale vecchio stile, inefficiente e autoreferenziale. Oppure possiamo costruire un nuovo modello di presenza pubblica: intelligente, selettiva, finalizzata al bene comune. Un modello che non chiede allo Stato di fare tutto, ma di essere là dove serve. Dove c’è un interesse collettivo da difendere. Dove c’è una libertà economica da rendere concreta, anche per i più deboli. Non serve uno Stato padrone. Serve uno Stato stratega.