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Politica
Una società di parassiti e lo "Stato dei doveri"/ IL COMMENTO

Il mondo è impazzito? L’ipotesi è più fantastica che verosimile. Innanzi tutto la Terra è più grande di quanto di solito pensiamo, visto che nella maggior parte dei casi, quando parliamo del mondo, pensiamo all’Italia. Poi è poco verosimile che all’intera umanità abbia dato di volta il cervello. Infine, chi è questo sommo psichiatra che ha sufficiente autorità per giudicare sette miliardi e passa dei suoi simili?

Forse si dovrebbe rinunziare a parlare di un simile argomento, se non fosse che l’impressione di questa demenza collettiva è spesso evidente e continua a ripresentarsi alla mente. Allora lasciamo da parte le formulazioni patologiche e vediamo se la storia offra qualche testimonianza di “cambiamenti collettivi di mentalità”.

Un esempio è relativamente vicino a noi nel tempo. La mentalità normale dell’uomo è emotiva e irrazionale e tuttavia, per un breve periodo, nel Settecento francese, l’intera società colta si è voluta razionale e “scientifica”. Poi la moda è passata, e con l’Ottocento si è ritornati alla mentalità emotiva e irrazionale. Non stiamo ad emettere giudizi di valore: ciò che qui preme sottolineare è la coralità del fenomeno. Ci sono tendenze di pensiero che possono coinvolgere milioni di persone, interi Paesi e, in questa epoca di grande comunicazione, l’intero Occidente.

Dunque è lecito fare l’ipotesi che la mentalità oggi imperante domani possa essere vista come “deviante” rispetto a quella sana, chiara e legittima. Soltanto lo storico fa lo sforzo di capire le mentalità del passato. Molti invece non immaginano neppure che, in altri momenti, ciò che a loro appare evidente è stato ritenuto assurdo. E viceversa.

Ad esempio, l’Occidente pacifico e sicuro non è stato sempre pacifico e sicuro. Non soltanto l’orrendo massacro della Prima Guerra Mondiale ha appena compiuto un secolo, ma ancor meno tempo è passato da una pandemia che, invece di farci il solletico, come l’attuale, ha fatto morire decine di milioni di persone. Parlo della “Spagnola”. Né la carestia è uno spettro che riguarda epoche preistoriche: la grande fame irlandese, quella che spinse tanti di quegli infelici ad emigrare in America, per non morire, è della metà dell’Ottocento. Ieri.

Per la maggior parte degli uomini il passato è quello personale e in parte quello dei genitori. Soltanto perché ne hanno sentito parlare in casa. Già il mondo dei nonni è una noiosa mitologia, tanto che si presta un orecchio distratto a ciò che raccontano, un po’ dubitando che dicano la verità. Forse vogliono presentarsi come vittime di tempi difficili e ingrandire il loro ruolo di eroi. Del resto, per parlare di qualcosa di inverosimile, si dice che “a memoria d’uomo una cosa del genere non si è mai vista”. Dimenticando che a memoria d’uomo significa sì e no settanta/ottant’anni. Un battito di ciglia.

Tutto ciò, nell’Occidente attuale, fa sentire lo storico quasi un estraneo. Come comunicare con un prossimo che considera la fame un concetto marginale, qualcosa di cui non val la pena di occuparsi, mentre essa è stata ed è la molla della vita animale, ed anche della nostra, da infiniti millenni? Quanti giovani vedono il collegamento fra cibo e lavoro? Oggi, in epoca di pandemia, chi non ha da mangiare può andare a fare la fila alla Caritas, e può darsi che riceva un pezzo di pane e un piatto caldo. E la gente non si accorge neppure di quanto questo fatto costituisca una novità, soprattutto quando si tratta di migliaia di persone. Per un tempo infinito chi non ha avuto da mangiare ha digiunato, ed a volte è morto di stenti. Ma, se uno lo dice, è accusato di terrorismo psicologico.

Per millenni lo Stato è appartenuto al tiranno che ha oppresso i suoi sudditi per ricavarne il suo potere e i suoi agi, mentre oggi lo Stato è visto come una sorta di Divina Provvidenza che ha tutti i doveri, fra cui quello di nutrire gli affamati. Non che ci sia da lamentarsene, ma si dovrebbe almeno capire che è una novità, non un’ovvietà. E inoltre non bisognerebbe dimenticare che quando lo Stato regala qualcosa a qualcuno, è perché l’ha sottratta a qualcun altro.

Anche la guerra è uscita dal nostro orizzonte. In Europa settantacinque anni di pace hanno creato la convinzione che gli scontri armati siano un fenomeno del lontano passato che non tornerà mai più. Sicché non si capisce perché si dovrebbe avere un esercito e perché si dovrebbero spendere soldi per carri armati, navi ed aerei. Infatti lo sport praticato da tutti gli europei è quello dei tagli alla Difesa. Noi ci aspettiamo che, nel caso, della nostra difesa si facciano carico gli Stati Uniti. Chissà che un giorno non abbiamo qualche brutta sorpresa.

Il mondo occidentale è ubriaco di bontà. La stessa razionalità, se non è in linea col buonismo di moda, è vista come empia. Una ragazza frequenta un ricco notoriamente drogato e stupratore e finisce drogata e violentata. Un giornalista, Vittorio Feltri, condanna severamente il colpevole e dice anche che la ragazza avrebbe fatto meglio ad essere più prudente. Non l’avesse mai fatto; è stato subissato di critiche ed insulti. Come se avesse detto che colpevole dello stupro era la ragazza. Oggi dire una parola di buon senso può condurre alla forca. E attenzione, l’episodio non è grave per Feltri, è grave per i suoi critici: col loro numero e la loro veemenza, forniscono un sintomo della demenza contemporanea.

Né impressione diversa provoca l’attenzione eccessiva, untuosa e in parte ipocrita, a non ferire i sentimenti del prossimo. La political correctness nasce da questo. Negro è diventato un insulto, senza vedere che negro e nero sono la stessa parola. Non si può più dire che un nano è un nano, che un minorato è un minorato, che un cieco è un cieco. Rimane soltanto la libertà di dire che tutti questi adepti della political correctness sono una manica di imbecilli. O forse di “mentalmente svantaggiati senza loro colpa”.

È come se la realtà fosse indecente. Che qualcuno parli di me come di un “anziano” (come avessi cinquant’anni) o mi dia del vecchio bacucco non cambierà la mia anagrafe. Per quanto mi riguarda, sono disposto a definire la mia situazione nei termini più brutali. Che la metta in parole o no, e con quali termini, è secondario. È un fatto.

Altro esempio di stupidità collettiva, la mania ecologica. Il telegiornale di Sky è preceduto da un’immagine della Terra che gira e c’è un momento in cui l’emisfero visibile è tutto mare, salvo la Nuova Zelanda che comincia ad apparire a sinistra. Se poi vediamo quanto sono grandi l’Italia, e la stessa Europa, quando sono al centro dell’emisfero, viene il dubbio: “Veramente possiamo influire sul clima?” Ma questo dubbio non è lecito. Non soltanto il riscaldamento globale è un dogma indiscutibile, è indiscutibile anche che sia determinato dall’uomo. Il fatto che in passato l’Italia sia stata coperta dai ghiacci, o che nella savana francese ci siano stati i leoni, non induce nessun sospetto.

Altro esempio di collettiva mancanza di buon senso, l’immigrazione. Anche qui il riflesso buonista scatta come un “Jack in the box”, il pupazzo che salta fuori all’apertura della scatola. Esso si fa forte di due ragioni: il dovere di aiutare chi è in bisogno e il dovere di non discriminare chi ha un colore della pelle diverso dal nostro. Ragioni che sembrano incontrovertibili e che tuttavia sono sbagliate. Se infatti si ventilasse l’ipotesi dell’immigrazione di un milione di Serafini o di Cherubini, io sarei contro: non perché gli angeli siano inferiori a noi, semplicemente perché ogni volta che nella società si crea un “loro” e un “noi” ne conseguono guai. Questa non è una teoria, è una constatazione. E se neanche le constatazioni sono un argomento sufficiente, mi fermo qui.

Altra forma di demenza è la trasformazione dei desideri in diritti. Oggi se ne scoprono sempre di nuovi, diritti del bambino, diritti del malato, diritti del minorato, diritti dello straniero, diritti delle donne, diritti di ogni genere e colore, fino ai diritti degli animali. Naturalmente sono a favore di tutte queste istanze, ma non sotto forma di diritti. Il vecchio, per sopravvivere, non può che contare sulla solidarietà dei connazionali, e per questo dovrebbe direi grazie per quello che gli altri fanno per lui. Viceversa la mentalità corrente è quella di rimproverare tutti per quello che non fanno per no. Ovviamente violando i nostri diritti. Questo è uno stravolgimento della realtà favorito dalla retorica della Costituzione.

L’occidentale contemporaneo non capisce che è il primo responsabile di sé stesso. Chi lavora, e per tutta la vita paga il premio di un’assicurazione contro la vecchiaia, ha diritto alla prestazione. Chi invece prima ha fatto la cicala, e ora tende la mano, non ha diritto alla carità. Può sperare di averla ma non come diritto. E dunque deve prepararsi a dire grazie.

La nostra società tende ad una sorta di parassitismo generalizzato e il singolo è divdenuto un irresponsabile. E dopo tutto questo è strano che io abbia la sensazione di vivere in una società demente?

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