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Politica
Voto elettronico? “Non sia un tabù, la Carta si interpreta in base ai tempi”
(fonte Lapresse)

Mentre si allunga la lista dei deputati posti in isolamento fiduciario perché risultati positivi al Covid - dopo il segretario dell’Ufficio di presidenza e deputato di Liberi e uguali Luca Pastorino, oggi è toccato anche ai parlamentari Marco Minniti del Pd, Guglielmo Epifani, Nicola Fratoianni e Nicola Stumpo di Leu - il voto sullo scostamento di bilancio si fa sempre più imminente. E per celebrarlo non basta la maggioranza semplice come per la Nadef. Dunque, la via d’uscita trovata fino ad ora dalla Giunta del Regolamento, e cioè considerare in missione chi non può raggiungere l’Aula per motivi di salute, abbassando così il quorum per il numero legale, non sarà più percorribile.

Per lo scostamento di bilancio servirà infatti la maggioranza assoluta. Ecco che quindi si imporrà con forza il tema del voto elettronico. Una questione accantonata nei mesi scorsi, nel pieno della fase uno della pandemia, ma che a questo punto non pare ulteriormente rinviabile. Lo stesso presidente della Camera, Roberto Fico, ha convocato proprio per giovedì la Giunta per il regolamento “per discutere - spiega la terza carica dello Stato in un post su Facebook - degli effetti sul regolamento della riduzione del numero dei parlamentari e delle modalità di lavoro della Camera in queste settimane di emergenza Covid”.

Affaritaliani.it ne ha parlato con il costituzionalista Michele Ainis per capire se quella del voto elettronico sia una strada percorribile e perché si è aspettato tanto per prenderla in seria considerazione. “E’ chiaro che è preferibile la presenza fisica - ha subito detto al nostro giornale il professore ordinario di Istituzioni di diritto pubblico all’università di Roma Tre -, ma quando ci sono condizioni che la rendono impossibile o sconsigliabile, dare battaglia per attestarsi su una interpretazione letterale del concetto di presenza è come andare oggi con una carrozza a cavallo anziché prendere un areo”.

Professore, quali ostacoli ci sono sul cammino del voto elettronico?
L’impedimento formale all’applicazione del voto a distanza consisterebbe nell’articolo 64 terzo comma della Costituzione. La norma dice che le deliberazione delle Camere non sono valide se non è presente la maggioranza dei componenti e se non sono adottate a maggioranza dei presenti. Pure i Regolamenti parlamentari fanno riferimento alla presenza fisica, è vero. Ma è vera anche un’altra cosa.

Quale?
Che i Regolamenti, poi, sono liberamente interpretabili dalle stesse Camere per il principio d’autonomia, riconosciuto molte volte dalla Corte costituzionale. Quindi, il nodo non è tanto nei Regolamenti quanto nell’interpretazione della norma costituzionale.

Giovedì è convocata la Giunta del Regolamento alla Camera. Come se ne esce, secondo lei?
Si può intervenire con delle operazioni interpretative. Per la modifica dei Regolamenti è chiaro che occorre il voto d’Aula a maggioranza assoluta.

Qual è la sua interpretazione su tale questione?
Io sono dell’idea che così come sono considerati presenti i ragazzi che hanno ricevuto lezioni attraverso lo schermo di un computer, così come sono a tutti gli effetti presenti coloro che partecipano a un webinar, la presenza non è appunto solo quella fisica, ma anche la virtuale. Ancora oggi, non a caso, si continuano a fare lezioni universitarie con studenti in parte nelle aule ed in parte collegati via web.

Insomma, secondo lei, a questo punto, il voto telematico s’ha da fare?
D’altra parte l’alternativa quale sarebbe, quella di chiudere il Parlamento? Ogni Carta costituzionale non può non ricevere interpretazioni evolutive che cambiano a seconda dei tempi. Le faccio un esempio.

Prego.
Nella nostra Costituzione non si parla di tv perché non c’era nel ’48, ma l’articolo 21 sulla libertà di stampa è facilmente applicato anche alla televisione e a internet. Una interpretazione, appunto, evolutiva e correttiva. La stessa Costituzione americana, che ha due secoli e mezzo di storia, non è stata sottoposta a troppe revisioni, ma a molte interpretazioni evolutive.

Da questo punto di vista come Paese siamo indietro?
Se noi guardiamo a cosa è successo intorno a noi nel mondo, possiamo renderci conto di come si sono mossi gli altri Paesi. Ad esempio, quando l’epidemia è scoppiata, i tedeschi hanno modificato il loro regolamento parlamentare in modo tale che si considera raggiunto il numero legale quando in Aula è presente più di un quarto dei membri. In sostanza, facendo una forzatura matematica, hanno considerato come maggioranza il 25 per cento e non il 51 per cento.  Pure in Francia è stata predisposta una innovazione al regolamento: i francesi, in pratica, si accontentano della presenza in Aula dei capigruppo e di due deputati per gruppo. E potrei continuare.

Continui.
Fatta eccezione per la Spagna, che non ha avuto bisogno di introdurre modifiche espresse perché dal 2012 è contemplata la modalità di voto online, c’è pure l’esperienza del Regno unito da ricordare. Il Parlamento più antico del mondo, dopo 700 anni, si è infatti riunito in modo virtuale. Nelle sedute in cui sono previste interrogazioni hanno dato via libera alle presenze telematiche dei deputati e hanno stabilito un massimo di cinquanta membri presenti in Aula. Senza contare, infine, il Parlamento europeo. Anche qui voto per email certificata e controllata.

Può essere che il problema della certezza dell’identità, che si pone in assenza dell’immunità della sede, sia stato un elemento ostativo?
L’immunità della sede è un conto, la certezza e l’affidabilità del voto elettronico un altro. Sono due cose diverse. Secondo me, l’immunità della sede non c’entra nulla, anche perché rimane invariata. Il parlamentare invece, ha le guarentigie per cui è insindacabile per le opinioni espresse e i voti dati, come recita l’articolo 68 della Carta. E queste garanzie rimangono sia con il voto elettronico che con il voto in presenza. L’unico problema è quello di dotarsi di procedure e modalità di controllo che garantiscano la segretezza del voto e la sua veridicità. Ma, ripeto, il Parlamento europeo lo ha fatto.

Allora, cosa può aver impedito l’adozione di questa procedura?
Da un lato la preoccupazione del giudizio che poteva essere espresso dagli elettori. D’altronde, sullo smart working in generale, in questi mesi, si è spesso sentito dire che il lavoratore sta a casa sul divano e non fa nulla. Una valutazione sbagliata.

E dall’altro lato?
Un argomento più serio che scaturisce dalla valutazione che il Parlamento, come indica la parola stessa, non è un luogo in cui si vota e basta. Dalla valutazione che nelle Aule si discute. Quindi, se si tratta di 630 deputati o 400, come sarà dopo il taglio dei parlamentari, è evidente che è tutto più complicato. Io una soluzione tecnica l’avrei.

Di cosa si tratta?
La commissione in sede deliberante. Nelle commissioni i membri sono pochi e sarebbe più facile discutere anche attraverso un pc. Tra l’altro, ci sono delle materie per le quali la Costituzione esclude la commissione in sede deliberante, ma tra queste, per esempio, non c’è la legge di conversione di un decreto legge. Ecco perché ritengo che, dovendo riformare i Regolamenti entro la prossima legislatura, per via del taglio dei parlamentari, questa sarà l’occasione per ripensarli in senso globale. Si dovrà per esempio mettere mano alle commissioni, prevedendo degli accorpamenti. A quel punto, si potrà anche stabilire che in queste ultime si istruisce e si delibera e in Aula si svolge il voto finale. Ecco che non sarà più un problema né il voto telematico nell’emiciclo e né discutere i provvedimenti tra i parlamentari che non saranno 400, ma saranno 30 o 40 commissari.

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