Una cosa è certa, tra tante. Non so quale sia la reale origine del virus, né so se ancora sia possibile sollevare tale dubbio, nella società che ha liquidato il dubbio stesso come fake news e i dubbiosi come complottisti. So, però, che il virus ha privatizzato le esistenze. Ha, cioè, dissolto quella dimensione pubblica del mondo della vita che figurava, a tratti, come un'esistenza superstite nel regno del privato e del concorrenziale. Parchi e spazi pubblici, spiagge e chiese erano, a rigore, una sopravvivenza del comune e del pubblico che non soltanto mal si conciliava con la logica iperprivatistica del "regno dei mercanti", ma che addirittura poteva figurare come il luogo della sua eventuale contestazione.
E ora, invece, ci troviamo a vivere il tempo dell’esistenza privatizzata: ciascuno nella propria dimora. L’ho già sottolineato, è il paradosso irresistibilmente grottesco della open society: che si realizza nell’atomistica delle solitudini chiuse per legge in casa. Chissà per quanto, poi. Si assiste, a tal riguardo, a una duplice tendenza. Da un lato, v’è il discorso del virologo, che, con la mistica del picco, evoca la fine del pericolo, però sempre differendola. E ci pone tutti, in fondo, nella nota posizione dell’asino che insegue la carota. Dall’altro, v’è il discorso del giornalista, che alla mistica del picco tende spesso ad aggiungere un particolare: il rischio di un'emergenza infinita e di un impossibile ritorno alla normalità.
"Non torneremo più alla normalità” (“Il Fatto Quotidiano”, 20.3.20), “alcune cose non torneranno mai più” (“Corriere della Sera”, 21.3.20), “la vita dopo l'emergenza virus non sarà quella di prima” ("La Repubblica", 31.3.20). Difficile, in questo caso, distinguere tra descrizione e prescrizione, tra sanità e politica, tra lotta al virus e lotta di classe. L’emergenza Coronavirus c’è e non va trascurata, sempre elogiando medici e infermieri. Ma v’è anche un altro rischio, e anch’esso non dovrebbe essere trascurato. Il rischio, cioè, che la lotta al Coronavirus diventi anche, presto o tardi, l’alibi per l’instaurazione di un nuovo ordine terapeutico globalista: che, in nome dell’emergenza virus trasformata in emergenza permanente, riplasmi i rapporti sociali del liberismo in chiave nuova e, ça va sans dire, tutta a vantaggio del già avvantaggiatissimo polo dominante.
Il “distanziamento sociale”, che ora è necessario, potrebbe diventare in futuro un nuovo ed efficacissimo metodo di governo: non vi sarebbero più scioperi e manifestazioni, assembramenti e spazi di pubblico dibattito. Ciascuno, come un monaco postmoderno, sarebbe sine die costretto nella sua cella casalinga, in una sorta di clausura epidemiologica coatta. In nome della sopravvivenza, il nuovo docile suddito dello stato terapeutico globalizzato potrà rinunziare a tutto, dalle libertà all'indocilità ragionata della protesta. E il potere potrebbe riprodursi incontrastato, senza opposizione politica e sociale.
Ne scaturirebbe una sorta di società neofeudale iperclassista all’ennesima potenza: in cui la upper class del patriziato cosmopolitico vive la quarantena nelle sue sontuose fortezze con giardino e piscina; e, giù in basso, la moltitudine, il gregge e le nuove plebi sopravvivono a malapena, nei loro monolocali periferici e magari senza balcone. Scenari futuri e solo immaginari, di cui eventualmente ci si occuperà a emergenza finita, diranno alcuni: già, ma non si dimentichi che, se l’ipotesi è plausibile, non vi sarà mai una fine dell’emergenza. E, soprattutto, non si oblii mai il fatto che il capitalismo è sempre più rapido di noi nel riorganizzarsi e nel mutare ogni imprevisto, ogni errore, ogni casualità in cemento che lo rafforza e lo rende più solido.
Diego Fusaro (Torino 1983) insegna storia della filosofia presso lo IASSP di Milano (Istituto Alti Studi Strategici e Politici) ed è fondatore dell'associazione Interesse Nazionale (www.interessenazionale.net). Tra i suoi libri più fortunati, "Bentornato Marx!" (Bompiani 2009), "Il futuro è nostro" (Bompiani 2009), "Pensare altrimenti" (Einaudi 2017).
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