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Economia
Banche venete, corsa contro il tempo. I problemi della soluzione di sistema

di Luca Spoldi
e Andrea Deugeni

Repetita adiuvant, o almeno qualcuno in Italia lo spera. Per cercare di sbloccare l’empasse che finora ha impedito di risolvere la crisi delle due ex banche popolari venete, Bpvi e Veneto Banca, in questi giorni il pressing del governo si è fatto intenso nei confronti di Unicredit e Intesa Sanpaolo. Diversamente da come capitato a Banco Popular (rilevato dal Banco Santander per un euro simbolico in cambio di una iniezione di mezzi che consentisse una drastica pulizia di bilancio), nessuno dei due grandi istituti italiani, che pure hanno tratto beneficio da una soluzione “di sistema” come la nascita del fondo Atlante (che se da un lato ha richiesto a entrambe le banche versamenti cospicui, poi sostanzialmente vaporizzati, dall’altro ha evitato loro di sottoscrivere gli aumenti di capitale dei due istituti in crisi, di cui pure avevano inizialmente accettato di curare il collocamento), pare intenzionato a rilevare una o entrambe le banche venete.

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D’altra parte per evitare ripercussioni ulteriori potenzialmente “sistemiche”, quanto meno per i rapporti politici (dato che con meno del 2% dei crediti “in bonis” del sistema italiano è difficile sostenere che l’eventuale bail in di Bpvi e Veneto Banca avrebbe effetti sistemici a livello economico), i due campioni nazionali non potrebbero tirarsi indietro nel caso di una nuova operazione “volontaria” da parte del sistema bancario italiano come già avvenne nel caso delle quattro banche risolte a fine 2015 poche settimane prima dell’entrata in vigore della direttiva BRRD e delle norme che impongono di procedere a “bail in” quando si tratta di salvare una banca.

Problema: far intervenire nuovamente il Fondo interbancario di tutela dei depositi (Fitd), attraverso il suo “schema volontario” (così da evitare la qualifica di aiuto pubblico) per garantire 1,2-1,3 di euro di capitali privati da girare come liquidità ai due istituti, anche per non coinvolgere altri soggetti come le assicurazioni e le fondazioni bancarie che a suo tempo entrarono in Atlante, vorrebbe dire anticipare un altro paio di annualità (nel caso di Banca Marche, Banca Etruria, CariChieti e CariFe vennero anticipate 3 annualità per raccogliere in totale 2 miliardi di euro), che si sommerebbero a quelle già anticipate a fine 2015 e che ancora stanno venendo spesate nei bilanci delle banche.

In sostanza vi è il rischio che il Fitd impegni le proprie risorse future fino al 2020 solo per togliere le castagne dal fuoco di due banche, col rischio che l’emergere di ulteriori crisi negli anni a venire mette in futuro a rischio i depositi degli istituti che fossero coinvolti. Essendo volontaria, poi, l’adesione allo schema non può per forza di cose essere resa vincolante per tutti gli istituti: vi è dunque il rischio che chi accetterà di partecipare a questo nuovo salvataggio privato-pubblico porterà benefici anche o soprattutto a quei concorrenti che si saranno smarcati evitando ulteriori versamenti.

(Segue...)

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