"Dazi, prezzi più alti nei supermercati italiani. Carrefour-NewPrinces? La grande distribuzione come il risiko bancario, e non è finita qui" - Affaritaliani.it

Economia

Ultimo aggiornamento: 18:56

"Dazi, prezzi più alti nei supermercati italiani. Carrefour-NewPrinces? La grande distribuzione come il risiko bancario, e non è finita qui"

Le tariffe Usa colpiscono l’agroalimentare italiano. Carrefour lascia: la grande distribuzione italiana sta cambiando volto. L'intervista a Giorgio Santambrogio, amministratore delegato del Gruppo VéGé

di Rosa Nasti

"Agroalimentare, i dazi Usa potrebbero far salire i listini anche nella grande distribuzione  italiana"

Dal 27 luglio è scattata una tariffa del 15% sulle merci europee dirette negli Stati Uniti. Meglio del 30% minacciato inizialmente, certo, ma non basta a far brindare il Made in Italy. In cambio del dazio “scontato", Bruxelles si impegna ad acquistare 750 miliardi di dollari di energia americana in tre anni e a investire altri 600 miliardi negli Usa. E l’agroalimentare italiano? Resta appeso.

Un export da 7,8 miliardi di euro l’anno - vino, olio, pasta, formaggi e riso - rischia di pagare il conto più salato. E senza esenzioni chiare e veloci, l’impatto potrebbe estendersi a filiere, posti di lavoro e investimenti. Affaritaliani ne ha parlato con Giorgio Santambrogio, amministratore delegato del Gruppo VéGé e leader nella distribuzione associata.

Cosa pensa dell’accordo trovato tra USA e UE sul tema dei dazi? Molti parlano di una sconfitta per Bruxelles, troppo debole per negoziare. È davvero così?

I dazi ci sono sempre stati. Stiamo cercando di ingigantire qualcosa che, in realtà, fa parte del commercio internazionale da sempre. Alcuni dazi, peraltro, erano già più alti del 15% stabilito ora: pensa ai formaggi, che già oggi pagano quel livello di tariffa. Quindi in certi casi, se venisse confermato il 15%, potrebbe persino essere visto come un miglioramento.

Secondo me, l’Europa è stata troppo veloce ad "abbassare la guardia", spinta dal timore che gli Stati Uniti potessero applicare dazi ancora più alti, magari al 20% o oltre. Questo approccio frettoloso si riflette anche nella dissonanza tra i testi ufficiali pubblicati dalle due parti, quello europeo e quello americano: la differenza di tono e contenuto è indicativa della fretta con cui è stato chiuso l’accordo.

Io posso parlare solo del settore agroalimentare, che è quello di cui mi occupo. In generale, non è sbagliato fissare dei dazi uniformi - un’aliquota piatta può anche avere senso - ma a quel punto è fondamentale lavorare bene sulle singole categorie di prodotto.

Mi riferisco in particolare a quelli per cui l’Italia detiene una vera esclusività, come i prodotti certificati: pensiamo al Parmigiano Reggiano, all’olio extravergine, ai vini di qualità. In questi casi si può e si deve lavorare per ottenere trattamenti specifici, perché c’è una domanda reale da parte del consumatore americano per questi prodotti autentici, non per le imitazioni.

Altrimenti, il rischio è che aumenti ancora l’Italian Sounding, che danneggia sia le nostre aziende che i consumatori statunitensi. Questi ultimi, infatti, vorrebbero comprare prodotti italiani certificati, ma si trovano costretti a ripiegare su surrogati come il “parmesan” perché i prezzi dei veri prodotti italiani salgono troppo. Quindi, bisogna agire in modo mirato, e credo che in questo senso le associazioni di categoria – come ricordava anche stamattina Emanuele Orsini di Confindustria – stiano già facendo un buon lavoro.

E non ha neanche senso parlare di ristori. Non siamo in piena emergenza Covid, e sarebbe scorretto, concettualmente, usare denaro pubblico, italiano o europeo, per compensare dazi che, di fatto, vengono pagati dagli importatori americani. Non ha senso oggi pensare a indennizzi generalizzati.

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In che modo questi dazi impattano sulla grande distribuzione? 

Una delle preoccupazioni, non enorme, riguarda l’indotto. Penso ai fornitori italiani che esportano anche negli Stati Uniti. Il timore è che, tra una possibile diminuzione della domanda americana o un coinvolgimento nel pagamento dei dazi (magari scaricato sugli esportatori dagli importatori Usa), questi fornitori possano decidere di alzare i listini anche per la distribuzione italiana.

Non sono particolarmente allarmato, perché sarebbe una reazione poco corretta. Ma immagino che, se un’azienda italiana ha una quota rilevante del proprio fatturato negli Stati Uniti, diciamo il 50%, e si trova a perdere marginalità o ad affrontare costi maggiori, potrebbe voler compensare aumentando i prezzi anche nel mercato interno. Sarebbe una reazione discutibile, ma non del tutto improbabile. Quindi sì, una leggera preoccupazione c’è, anche se confido molto nel senso di responsabilità delle aziende agroalimentari italiane, indipendentemente dal settore.

Con queste tariffe anche i posti di lavoro sono a rischio?

Personalmente non credo che questo possa tradursi in un crollo dell’occupazione o in un’ondata di licenziamenti. Le aziende agroalimentari italiane hanno ancora margini per ottimizzare le vendite nel mercato interno e per trovare sbocchi alternativi all’estero. È vero che certi compratori, come quelli americani di fascia alta, non si trovano ovunque, ma non credo che la situazione porterà a una crisi occupazionale.

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Il marchio francese Carrefour lascia l’Italia e venderà tutti i suoi supermercati a NewPrinces, di Angelo Mastrolia. Era una vendita inevitabile? E quanto pesa nel panorama della GDO italiana?

Stiamo vivendo un momento storico di grande trasformazione nel settore del largo consumo. È un periodo in cui si moltiplicano le acquisizioni, i cambi di proprietà, i passaggi di insegne. Non mi sorprende quindi né un’uscita né un’acquisizione.

Penso ad altri esempi recenti: NewPrinces che ha rilevato anche Plasmon, Ferrero che ha acquisito Kellogg’s. È evidente che ci troviamo di fronte a una fase di forte evoluzione e accelerazione nei movimenti del settore. Un dinamismo che non si vedeva da anni.

Secondo me tutto questo è figlio di un processo ormai ineluttabile di concentrazione, simile a quello che abbiamo visto nel settore bancario. Mi piace fare questo parallelo: come nel mondo del credito si è parlato di "risiko bancario", così oggi assistiamo a una vera e propria riorganizzazione della distribuzione, dove contano sempre di più le economie di scala, le sinergie e la capacità di agire su scala nazionale o internazionale.

Quindi, pur senza commentare nel merito l’operazione Carrefour–NewPrinces, osservo un mercato molto vivo, con grande fermento sia nel retail alimentare che nel mondo bancario. E secondo me non è finita: da qui a fine anno potremmo assistere ad altri movimenti importanti.