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Palazzi & potere
Pubblica amministrazione, Brunetta: "Con la Madia indietro di dieci anni"

Appena arrivato a Palazzo Chigi Matteo Renzi dichiarò di voler fare una riforma al mese. La “Riforma Madia della Pubblica amministrazione sarà presentata entro fine aprile (2014)”, affermò l’allora presidente del Consiglio. In realtà la legge delega della riforma sulla PA arrivò in Gazzetta ben 15 mesi dopo, e i primi decreti attuativi solo nel 2016.


La legge di riforma conteneva ben 14 deleghe legislative, che incidevano, in particolare, su dirigenza pubblica, razionalizzazione delle società partecipate, dirigenza sanitaria, servizi pubblici locali, testo unico sul pubblico impiego. Una riforma tanto ambiziosa, sulla carta, quanto confusa nella sua idea complessiva di pubblica amministrazione.


Eppure le intenzioni sembravano buone (almeno in teoria). Si legge sul sito della funzione pubblica: “La riforma è concepita col criterio della massima semplicità. Non vuole appesantire e complicare il quadro normativo, ma interviene per rendere più efficaci le norme che ci sono, modificandole laddove l’interlocuzione con i cittadini e con le imprese ha dimostrato che negli anni si sono creati dei blocchi. Per la prima volta infatti la riforma della pubblica amministrazione non è stata concepita come una riforma di settore ma come un progetto di cambiamento del paese”.


Una “semplicità” normativa che ha invece comportato l’emanazione di ben 23 decreti legislativi. Un “cambiamento” di cui nessuno si è accorto, se non la Corte Costituzionale che ha bocciato alcuni fondamentali decreti legislativi, sancendo l’incompetenza giuridica del ministro Madia.


La Consulta, infatti, con la sentenza n. 251/2016, ha giudicato incostituzionali alcuni articoli della Riforma Madia, che prevedevano una semplice acquisizione del parere della Conferenza Stato-Regioni e non una vera e propria intesa per l'approvazione di quattro decreti attuativi. A seguito della sentenza, il Governo ha poi lasciato scadere i termini della delega per l'approvazione dei decreti di riforma della Dirigenza e dei servizi pubblici locali, che peraltro stavano per essere approvati. Ha quindi varato tre decreti correttivi del D.Lgs. 116/2016 (licenziamento disciplinare), del D.Lgs. 171/2017 (Dirigenza sanitaria) e del D.Lgs. 175/2016 (TU società a partecipazione pubblica), acquisendo l’intesa della Conferenza Unificata e i pareri delle competenti Commissioni parlamentari.


Inoltre, la medesima Corte Costituzionale con la sentenza n. 261 del 2017 ha bocciato anche la riforma delle Camere di commercio. Non male per un ministro che voleva riformare la pubblica amministrazione e che è stata travolta dalla sua stessa incompetenza.


Se vogliamo analizzare quali sono stati gli effetti degli interventi della Madia, dobbiamo necessariamente partire dal pubblico impiego, che avrebbe dovuto contare, secondo le intenzioni, sulla riforma della dirigenza, sul nuovo testo unico del pubblico impiego, sulla valutazione della performance e sulle norme di modifica in materia di licenziamento disciplinare.


La riforma della dirigenza - come abbiamo detto - è stata bloccata dalla Corte costituzionale e il governo ha dovuto rinunciare ad una delle riforme cardine dell’intero progetto. Peraltro lo stesso testo di riforma era stato molto criticato in primis dal Consiglio di Stato, poi dalla corte dei conti e anche da addetti ai lavori.
Ma la stagione delle riforme (mancate) della Madia si è fermata in prossimità del referendum costituzionale del 2016. Fino ad allora il tutto era stato fatto con grande arroganza, senza consultare i sindacati. In prossimità del referendum costituzionale del dicembre 2016, la ministra Madia cambia strategia, convoca i sindacati (in realtà solo CGIL, CISL e UIL) e firma con loro un patto per il pubblico impiego.


Cosa prevedeva il patto? In pratica quattro  cose. Eliminazione di alcune parti della riforma Brunetta. La firma del CCNL per il pubblico impiego. Un nuovo equilibrio tra legge e CCNL. Il ritorno della concertazione. In buona sostanza, con questo patto la ministra Madia ha riportato il pubblico impiego indietro di dieci anni.
L’eliminazione di alcune parti del D.Lgs. n. 150 del 2009 (la cosiddetta “riforma Brunetta”) è avvenuta con l’emanazione del decreto legislativo sul testo unico sul pubblico impiego. Tutta la parte della produttività selettiva prevista dal medesimo d.lgs. 150/2009 è stata soppressa, reintroducendo la possibilità di erogazione dei premi a pioggia. Era una delle cose che dava più fastidio ai sindacati, e la Madia li ha accontentati attraverso quella che possiamo definire “cambiale referendum”.


Secondo punto del patto: la firma del contratto. In realtà ci è voluto più di un anno per giungere alla firma. Questo perché mancavano i soldi, che sono stati aggiunti in “zona cesarini” (usando un termine calcistico) con l’ultima legge di bilancio. Solo parzialmente però, perché mancano comunque le risorse per la firma degli altri contratti Ragioni ed enti locali, Scuola e, soprattutto Sanità.


Il terzo punto era il nuovo equilibrio tra legge e contratto. In buona sostanza la legge diventa la cornice che fissa le regole generali, lasciando al contratto la possibilità di intervenire e di derogare alla legge quando questa dovesse invadere profili che riguardano il rapporto di lavoro pubblico (dalle sanzioni alla mobilità).


L’ultima questione affrontata dal patto era la restaurazione della concertazione con i sindacati: questa è stata sancita in primis dal testo unico sul pubblico impiego e confermata nel contratto di lavoro firmato recentemente per le funzioni centrali. In realtà, con il nuovo contratto, la “concertazione” si definisce “confronto”. Secondo l’art. 5 del contratto, “il  confronto è la modalità attraverso la quale si instaura un dialogo approfondito sulle materie rimesse a tale livello di relazione, al fine di consentire ai soggetti sindacali …, di esprimere valutazioni esaustive e di partecipare costruttivamente alla definizione delle misure che l'amministrazione intende adottare.” Ebbene: su quali materie opera il confronto? Eccole: l’articolazione delle tipologie dell’orario di lavoro; i criteri generali di priorità per la mobilità tra sedi di lavoro dell'amministrazione; i criteri generali dei sistemi di valutazione della performance; l’individuazione dei profili professionali; i criteri per il conferimento e la revoca degli incarichi di posizione organizzativa; i criteri per la graduazione delle posizioni organizzative, ai fini dell’attribuzione della relativa indennità; il trasferimento o il conferimento di attività ad altri soggetti, pubblici o privati, ai sensi dell’art. 31 del d. lgs. n. 165/2001 (mobilità).


Ma dove non arriva il confronto, il Contratto ha previsto “l’Organismo paritetico per l’innovazione” composta dalle organizzazioni sindacali e da un numero pari di rappresentanti dell’amministrazione. Una vera e propria perla! L’organismo, recita l’art. 6, è la sede in cui si attivano stabilmente relazioni aperte e collaborative su progetti di organizzazione e innovazione, miglioramento dei servizi, promozione della legalità, della qualità del lavoro e del benessere organizzativo - anche con riferimento alle politiche formative, al lavoro agile ed alla conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, alle misure di prevenzione dello stress lavoro-correlato e di fenomeni di burn-out - al fine di formulare proposte all'amministrazione o alle parti negoziali della contrattazione integrativa.


E per concludere abbiamo la contrattazione integrativa, che è il livello più alto del confronto con le organizzazioni sindacali. E’ qui non c’è dubbio alcuno: si contratta su tutto. Le materie oggetto di contrattazione integrativa elencate arrivano fino alla lettera “V”. Un record! E’ inutile elencarle. L’amministrazione non può decidere più nulla. Deve solo contrattare o concertare.


Oltre questi aspetti più eclatanti il contratto è pieno di sorprese (negative). Si torna infatti alle famose 35 ore settimanali! L’articolo 18 prevede infatti una riduzione dell’orario di lavoro a 35 ore settimanali per il personale adibito a regimi d’orario articolati su più turni o coinvolto in sistemi d’orario comportanti significative oscillazioni degli orari individuali finalizzati all’ampliamento dei servizi all’utenza e/o comprendenti particolari gravosità.
Gli aumenti contrattuali, pari a 85 euro lordi mensili (netti sono circa 60 euro) solo per i dipendenti delle funzioni centrali (Ministeri, enti pubblici), sono destinati quasi interamente sulle voci stipendiali, senza alcuna quota consistente da dedicare alla produttività.


Resta sullo sfondo il grosso problema di reperire le risorse per il rinnovo dei contratti per la  Scuola, per le regioni e le  autonomie locali e la sanità. Per questi non ci sarà più il tempo per avere gli aumenti prima delle elezioni del 4 marzo, come quelli promessi ai dipendenti delle funzioni centrali.


Questo è il pubblico impiego che ci consegna la Madia al termine del suo mandato. Il tutto è stato mascherato come un grande processo di riforma e di lotta alle inefficienze, proclamando la (finta) lotta ai furbetti del cartellino oppure la battaglia per i licenziamenti “facili”.  Ma al di la degli annunci non si è risolto nulla.
La verità è che prima il referendum e ora l’approssimarsi alle elezioni hanno comportato la svendita del sistema pubblico per acquisire consenso, e i sindacati ne hanno subito approfittato. Purtroppo occorre rimettere mano su tutto e far ritornare un giusto equilibrio tra obiettivi di una pubblica amministrazione efficiente e diritti dei lavoratori.

Renato Brunetta, presidente dei deputati di Forza Italia

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