Politica
Sotto il sole di Roma, dove non tutto si scrive. Sulla vicenda del generale libico...
"L’intelligence non è più solo una questione di spie e documenti cifrati"

"L’interesse nazionale non si difende solo con le leggi o con le armi. Si difende anche con i rapporti giusti"
Era una di quelle mattine romane in cui il caldo sembra accelerare il tempo. In piazza, i tavolini del bar erano già quasi tutti pieni. Turisti americani e tedeschi, cappelli di paglia e occhiali da sole, ordinavano lasagne fumanti e bicchieri di vino alle undici del mattino, come se il pranzo fosse un atto inevitabile, qualunque fosse l’ora. L’odore di sugo e caffè si mescolava al rumore dei passi sui sampietrini.
All’ombra di un ombrellone, due uomini sedevano davanti a un caffè. Uno ascoltava, l’altro parlava con calma, misurando le parole. Non era il genere di conversazione che si vuole interrompere.
«Hai seguito la vicenda di quel generale libico?», chiese il primo.
«L’ho seguita», rispose l’altro. «Ma non è tanto la storia in sé. È il principio: quando certi rapporti finiscono sui titoli dei giornali, si perde la confidenzialità che li tiene in vita.»
Il primo inclinò il capo. «Confidenzialità… Ma non è giusto sapere? Non siamo in una democrazia?»
«Lo siamo, e per questo abbiamo regole e strumenti di controllo. Il COPASIR vigila sull’operato dei servizi di sicurezza, il Parlamento esercita la sua funzione. Ma vigilare non significa mettere in piazza ogni dettaglio. La riservatezza non è un lusso o un vezzo: è parte integrante del lavoro. È ciò che permette di costruire e mantenere rapporti che servono al Paese, anche quando non possono essere ufficiali.»
Un cameriere passò con un vassoio di amatriciana e fettuccine al ragù per un gruppo di giapponesi che fotografavano ogni piatto. La scena era un quadro romano di colori e rumori, ma al tavolo d’angolo si parlava di un mondo che raramente finisce nelle foto.
«Oggi», continuò l’uomo, «l’intelligence non è più solo una questione di spie e documenti cifrati. È un lavoro di protezione complesso: immigrazione, per capire e gestire i flussi prima che diventino crisi; energia, per garantire forniture sicure e diversificate; approvvigionamenti strategici, dai cereali ai metalli rari; cyberdifesa, per proteggere le reti da cui dipendono ospedali, banche e infrastrutture. In molti casi, si tratta di diplomazia parallela: incontri lontani dai riflettori, rapporti costruiti nel tempo, canali di dialogo che la diplomazia formale non può sempre aprire.»
Il primo si fece serio. «Quindi, quando una di queste storie diventa pubblica…»
«…quello che si perde non è un segreto, ma un legame», lo interruppe l’altro. «Un legame fatto di fiducia reciproca, di garanzie date e ricevute. Chi lavora in questo campo sa che ogni parola spesa in più deve valere il rischio che comporta. E quasi mai vale la pena mettere a rischio una collaborazione, un’informazione o una fonte per un titolo di giornale.»
Il brusio della piazza si alzava, coprendo le pause del dialogo. Il sole, alto e diretto, sembrava voler portare luce ovunque.
«Non è questione di difendere errori», aggiunse l’uomo. «È questione di difendere un sistema di protezione che serve a tutti, anche a chi non sa di averne bisogno. Ci sono uomini e donne che ogni giorno, in silenzio, negoziano, raccolgono, anticipano, avvertono. Non lo fanno per interesse personale, ma per l’interesse del Paese. E la loro arma più preziosa, più ancora dell’informazione stessa, è la fiducia che riescono a mantenere con chi sta dall’altra parte.»
Un gruppo di ragazzi passò con le valigie, diretto verso un taxi. Il primo uomo finì il suo caffè in silenzio. Capiva che la trasparenza era un valore, ma anche che la sicurezza vive di un equilibrio delicato: dire ciò che serve, tacere ciò che protegge.
Il secondo si alzò, lasciando qualche moneta sul tavolo. «Ricorda», disse, «l’interesse nazionale non si difende solo con le leggi o con le armi. Si difende anche con i rapporti giusti, con la parola data, con la capacità di ascoltare più di quanto si parli. Ed è un lavoro che non può sempre stare sotto il sole.»
Poi si allontanò, sparendo tra i turisti che continuavano a ordinare pranzo a metà mattina.