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Cronache
Allo Spallanzani la Fase 3 del vaccino HIV. Nel mondo 38 milioni di positivi

Vanessa Saffer

Quasi quarant'anni dalla scoperta dell'HIV, virus dell'immunodeficienza umana che può causare la sindrome da immunodeficenza acquisita (AIDS). Nessun vaccino ancora, ma la scienza non si è mai fermata. E' accertato che ci siano anche persone infettate ma asintomatiche, che non manifestano sintomi anche per dieci anni. Questi ed altri soggetti possono essere i candidati ideali per i trials clinici che sono in corso e che sono motivo di speranza e orgoglio per il nostro Paese, perchè l'obiettivo è quello di realizzare il tanto atteso vaccino. Ci riferiamo all'Istituto Lazzaro Spallanzani, dove proprio in questi giorni sta iniziando la Fase 3 della sperimentazione del vaccino contro l'HIV cui si lavora da anni, che vede coinvolti anche altri Istituti in Italia, il San Raffaele di Milano e il Policlinico di Modena e nel mondo. Lo studio ha subìto un rallentamento legato alla pandemia da Covid che ha creato non poche difficoltà in tutte le aree del mondo. Ma si sperimenterà sia in Europa che negli Stati Uniti. Ne parliamo con chi allo Spallanzani materialmente agisce e si occupa del progetto, il Dott. Andrea Antinori, Direttore di Immunodeficienze Virali dello Spallanzani.

Il virus dell'HIV è abile, astuto, sfuggente, particolare. Una bella sfida per voi.

E' una vecchia storia. C'è la famosa frase di Robert Gallo, che dopo la scoperta del virus, quando gli chiesero in quanto tempo sarebbe stato disponibile un vaccino, disse “Più o meno entro un anno”. Era il 1982 e il vaccino ancora non c'è. Questo da la misura di quale difficoltà ci sia. Si tratta di un virus che ha una grande variabilità genetica, è in grado di eludere molto facilmente la risposta immunitaria protettiva quindi non si comporta come molti dei virus verso cui sono stati sviluppati dei vaccini efficaci, per cui è stata una strada molto lunga e in alcuni casi, in alcuni periodi un po sconfortante. Forse c'è stata una fase, circa dieci anni fa, in cui non ci credevano più in molti che si sarebbe potuti arrivare a qualcosa di efficace. Ora negli ultimi anni c'è stato il fallimento di una serie di strategie come un famoso studio thailandese che aveva suscitato molte attese. Una piattaforma vaccinale, sperimentata in Thailandia qualche anno fa, con gli ultimi risultati negativi pubblicati all'inizio di quest'anno. Diciamo la prima piattaforma vaccinale che potrebbe essere una svolta è questa di cui parliamo. Una piattaforma sviluppata negli Stati Uniti nei laboratori di Boston, ad Harvard, che ha come base un vettore umano virale non replicante, non di scimpanzè o di gorilla, un adenovirus26 umano non replicante, in cui vengono inseriti dei frammenti di genoma virale. Poi c'è un vaccino complesso, si chiama Mosaico, proprio perchè è fatto dal vettore virale e da proteine virali di HIV che servono per evocare una risposta immunitaria il più possibile completa e complessa. I risultati della Fase 2 sono stati buoni. La Fase 2 è quella dove si valuta essenzialmente l'immunogenicità del preparato vaccinico, che ha evocato una risposta immunitaria sia neutralizzante che cellulare. Sono entrambi importanti. La risposta anticorpale neutralizzante è quella dei linfociti che vengono sensibilizzati a produrre una risposta immunitaria contro questi antigeni virali che sono espressi dal vettore vaccinico, per cui si è arrivati alla Fase 3. La Fase 3 ricordo è quella in cui viene sperimentata l'efficacia, quindi si fa sui grandi numeri. Migliaia di pazienti per andare a vedere se quelli vaccinati si infettano meno di quelli del gruppo dei non vaccinati.

Su quale popolazione si deve andare a sperimentare?

Su persone sieronegative che non hanno l'HIV, altrimenti sarebbero fuori dalla sperimentazione per i criteri inclusivi ed escludenti della sperimentazione stessa e che,  tuttavia, sono ad alto rischio di infettarsi. Quindi è stato scelto un target, uomini che hanno rapporti sessuali non protetti con uomini ad alto rischio, e donne transgender che hanno rapporti sessuali con uomini ad alto rischio non protetti, che è la categoria più vulnerabile in assoluto dal punto di vista del rischio dell'infezione. È la stessa categoria, candidata all'utilizzo della Profilassi Pre Esposizione, che si attribuisce a chi ha queste caratteristiche di rischio, che fanno attività sessuale ad alto rischio senza l'uso del profilattico.

La PEP e la PREP, spieghiamo cosa sono?

La PEP (Profilassi Post- Esposizione) è quella che viene assunta dopo l'episodio dell'atto sessuale a rischio e la PREP (Profilassi Pre-Esposizione) quella che si assume prima, per prevenire l'episodio. I candidati alla post esposizione sono quelli che hanno avuto un rapporto a rischio, con un partner positivo, si presentano in urgenza in ospedale, dicono di aver avuto ad esempio la rottura del profilattico oppure di aver scoperto che il partner era positivo o a rischio. A questi soggetti viene dato il farmaco. Le persone che assumono PREP sono come target le stesse a cui andremo a somministrare il vaccino HIV, perchè rientrano in quella categoria di persone ad alto rischio.

Quindi quale sarebbe la strategia di questa sperimentazione?

Il concetto è questo: dovendo sperimentare un vaccino devo capire se funziona e per capirlo devo avere un gruppo placebo che non fa nulla e continua a comportarsi come faceva prima e un gruppo vaccinale che viene vaccinato. Tutto questo si fa in doppio cieco. Però se io scelgo persone a basso rischio di infezione, l'atteso di numero di eventi di infezione che ci saranno nel gruppo placebo sarà bassissimo, quindi avrò bisogno di svariate decine di migliaia di persone per poter raggiungere un risultato significativo. Se invece prendo persone ad alto rischio di infettarsi, riesco a ridurre il campione, anche se parliamo sempre di migliaia di persone, ma non saranno nell’ordine delle decine di migliaia. Per l’HIV non si va sulla popolazione generale, ma sulla popolazione particolare che ha dei comportamenti sessuali ad alto rischio di infettarsi. Quindi la probabilità sarà elevata ed io riuscirò a vedere più facilmente se il vaccino funziona, perchè avrò più eventi del gruppo dei non vaccinati rispetto a quello che è l'atteso. Sono varie somministrazioni, c'è una schedula vaccinale, poi si arriva a fare una valutazione dopo un anno e anche a distanza.

Quindi fra un anno potrà dirci se questo studio avrà funzionato o meno, se avremo un vaccino contro l'HIV o no?

Ad un anno da oggi questo studio ci dirà quali saranno stati i risultati, cioè quanti saranno stati gli infettati dal braccio vaccino rispetto al braccio placebo. E se ci sarà una riduzione significativa del numero delle infezioni allora potremmo dire che abbiamo un vaccino efficace. Per ora non lo possiamo ancora dire. Possiamo dire che abbiamo un vaccino immunogeno, in grado di stimolare una immunità efficace nel soggetto. Ma attenzione, anche il vaccino thailandese aveva dato buoni risultati nella fase 2 e poi si era rivelato sostanzialmente inefficace. Il numero dei soggetti infetti del gruppo vaccinato era uguale a quello del placebo. Di fatto la sperimentazione è stata chiusa e il vaccino abbandonato, per cui prima di dire che un vaccino è efficace bisogna completare la Fase 3.

Quante persone prevedete di arruale?

In questa fase quattromila persone a livello globale e arruoleremo persone ad alto rischio, non persone che non hanno rapporti sessuali o che hanno rapporti sessuali protetti o eterosessuali. Vedremo che tipo di avventura sarà. Ci darà modo di intervenire sulla popolazione attraverso questa sperimentazione, come con la PREP. Una grande opportunità per fare prevenzione, poichè agiremo su un gruppo ad alto rischio, su persone ad elevata probabilità di infettarsi per il loro comportamento sessuale. Quindi è un'ottima occasione per fare prevenzione globale. Infatti nella sperimentazione vaccinale sarà consentito, durante lo studio, dare la PREP. Per cui potremmo fare attività di prevenzione su queste persone, oltre che sperimentare il vaccino in doppio cieco. Nessuno dunque saprà, né noi né loro, chi fa il vaccino e chi fa il placebo. Chi ha sperimentato si è posto anche eticamente un problema, stiamo parlando di una popolazione effettivamente vulnerabile e non ne possiamo “abusare”, ma accompagnare in un programma vaccinale, a un intervento di prevenzione globale come è logico che sia. Sarà un'esperienza molto importante perchè ci darà modo di fare molta informazione, molta prevenzione primaria, su questo gruppo di persone che alimentano i circa tremila casi che ogni anno si vanno ad infettare. Quindi sarà non solo una sperimentazione scientifica molto importante, ma un'operazione di sanità pubblica come forse non c'è mai stata in questo settore. 

Quali sono oggi le possibilità di trattamento per un sieropositivo?

Sono ottime. Abbiamo più di 20/25 farmaci a disposizione, farmaci di nuova generazione, molto sicuri, potenti, ben tollerati, al massimo due compresse al giorno. Stanno sperimentando farmaci a lento rilascio, sia orali che iniettabili. Diciamo che la tecnologia farrmaceutica su HIV ha espresso forse il suo potenziale in assoluto migliore negli ultimi trent'anni. Quasi nessun settore della medicina ha tanta tecnologia farmaceutica a disposizione. Questo ci ha consentito di cronicizzare questa infezione nella maggior parte delle persone con delle percentuali di risposta con virus completamente soppresso, capace di replicarsi e non trasmissibile, e in grado di non minacciare e danneggiare l'organismo in una percentuale che supera il 90% delle persone. Però nella migliore delle ipotesi parliamo di una malattia cronica. Per cui se si sospende la terapia, anche dopo dieci anni di cure continuative, sebbene molto efficaci, il virus riprende la sua forza. 38 milioni di persone nel mondo attualmente sono affette da HIV e le terapie devono essere assunte per tutta la vita. Se si sospende la terapia, nell'arco di poche settimane il virus torna a replicare. Non sono tutti in trattamento ma il tasso è molto ampio. Anche i paesi africani si stanno adeguando velocemente, è stato fatto un enorme sforzo ed intervento sull'accesso alle cure. Però è ovvio che se anzichè trattare quasi quaranta milioni di persone, si riuscisse a prevenire questa infezione si avrebbero dei vantaggi enormi, sia a livello individuale sia collettivo, sui costi, sui bisogni di salute, sulle disabilità, anche perchè alcuni di questi pazienti possono non rispondere alle cure, alcuni arrivano molto tardi alla diagnosi e non si riesce ad evitare che abbiano delle complicanze. La malattia non è uguale per tutti. Chiaramente siamo in una fase di ottimo controllo rispetto a vent'anni fa, ma non possiamo dire che l'HIV sia scomparso dalla faccia della terra, c'è, è ben presente e in alcune aree della terra colpisce in maniera dura. Per cui avere un vaccino a disposizione e poter vaccinare le persone per evitare che si infettino, soprattutto quelle più a rischio, ci consentirebbe di poter eradicare il problema.

C'è una correlazione fra il Coronavirus e il virus dell'HIV? Perchè sembrano essere virus un po pazzi, mutanti, ingestibili entrambi allo stesso modo. Hanno qualcosa in comune?

Qualcuno, gli americani, le ha definite pandemie gemelle. Ma è un po' speculativo. Non c'è affinità biologica. I virus sono indipendenti, hanno meccanismi completamente diversi. Uno si trasmette per via respiratoria e da contatto, l'altro attraverso il sangue e i rapporti sessuali. Uno è un virus che ha una lunga fase di latenza, sette anni e più prima di dare malattia e l'altro determina malattia in poche settimane. Sono due situazioni diverse e c'è da dire, e per questo gli americani le definiscono epidemie gemelle, che il target di popolazione colpito potrebbe coincidere, perchè c'è tutto un discorso sulle popolazioni vulnerabili. E' chiaro che la vulnerabilità, sociale oltre che di salute, è un concetto molto ampio. Oggi noi vediamo che chi si ammala di più e muore di più di Covid sono le persone più anziane che hanno più comorbidità. Questo vale anche per l'HIV. Chi in HIV peggiora ed ha un decorso peggiore sono spesso anche qui le persone più anziane con maggiori comorbidità. C'è una correlazione in questo senso. Però non possiamo stabilire che siano virus affini da un punto di vista biologico, e soprattutto non possiamo dire che chi ha tutte e due è più a rischio di morire. Noi ci siamo interrogati su questo: quanto era il rischio per un paziente HIV, che può essere per una certa quota ancora immunodepresso, soprattutto se è all'inizio della terapia, o se la terapia non funziona abbastanza, di poter contrarre il Covid in forma più grave? In realtà al momento questo non sembrerebbe che stia avvenendo. Il decorso di Covid nei pazienti sieropositivi sembra essere sovrapponibile al decorso che il Covid ha nella popolazione HIV negativa. Quindi HIV non sarebbe un'aggravante per poter avere una prognosi peggiore di Covid e questo è un dato da un certo punto di vista importante e rassicurante. Per il resto sono due malattie abbastanza distinte.

All'inizio della pandemia di Covid, si provarono pure dei farmaci usati per l'HIV. Che cosa accadde dopo?

Si è visto dagli studi che non avevano nessuna attività, per cui noi oggi utilizziamo farmaci antivirali nel Covid che sono diversi da quelli dell'HIV. All'inizio alcuni pazienti HIV si chiedevano se essendo in terapia antiretrovirale fossero automaticamente protetti dal Covid. Ma non è così, non c'era questo trasferimento di azione farmacologica tra un virus e l'altro. Se guardiamo alcune realtà globali come l'Africa, c'è molta preoccupazione specialmente nel Sud Africa dove c'è una brutta epidemia da Covid e dove c'è anche un HIV molto forte. Il Sud Africa è il paese al mondo con la prevalenza di HIV nella popolazione e quindi le due epidemie si incrociano e c'è grande preoccupazione, perchè il Covid potrebbe mandare per aria molti dei successi che sono stati raggiunti soprattutto nei paesi a risorse più limitate in questi ultimi anni. Il Covid significa anche sovraccarico degli ospedali, delle reti di sanità pubblica, significa maggiori difficoltà di accesso dei pazienti nelle strutture sanitarie, problemi sociali per la popolazione, perdita del lavoro, e tutto questo nei paesi dove ancora l'HIV è un problema, anche se hanno fatto grandi passi in avanti, questo incrocio fra le due epidemie può generare risultati gravi. C'è preoccupazione sul fatto che una epidemia come quella da Covid che centralizza un po tutto, possa poi generare un danno, soprattutto nei paesi poveri, provati dal punto di vista dei sistemi sanitari, disinnescando altre epidemie come la Tubercolosi, o funzionando da detonatore di altre epidemie contemporanee.

Questo da noi non sta avvenendo in maniera chiara, ma dobbiamo sorvegliare attentamente. L'erogazione dei servizi deve essere regolare nonostante la pandemia perchè altrimenti potremmo avere danni per altre malattie.

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