Culture
"Atti Mancati", il romanzo d'esordio di Matteo Marchesini
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LA TRAMA - Nel cuore di Bologna, Marco, trentenne diviso tra le incombenze giornalistiche e il tentativo di finire un romanzo, vive in una solitudine cocciuta e il più possibile asettica, fino a quando ricompare Lucia, la ragazza che lo ha lasciato qualche anno prima. Ora Lucia cerca Marco, lo assedia e lo porta in giro per paesi e campagne, a visitare i loro luoghi di un tempo, a ritrovare gli amici vivi e gli amici morti. Tra Bassa e Appennini, tra cliniche e osterie, Lucia – come una fragile ma tenace erinni – costringe Marco a rianalizzare le zone più oscure del loro passato.
L'AUTORE - Matteo Marchesini è nato nel 1979 a Castelfranco Emilia e vive a Bologna. Tra le sue pubblicazioni: le poesie di Marcia nuziale (Scheiwiller 2009), le satire di Bologna in corsivo. Una città fatta a pezzi (Pendragon 2010), i saggi letterari di Soli e civili (Edizioni dell’Asino 2012).
LA PRESENTAZIONE A BOLOGNA - Mercoledì 20 marzo, alle ore 18, alla Libreria Trame (Via Goito, 3), Guido Armellini presenta "Atti mancati", romanzo d’esordio di Matteo Marchesini. Sarà presente l’autore
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(per gentile concessione di Voland)
A un certo punto, senza accorgertene, hai trentatré anni. E non puoi neanche dire di non aver raggiunto, almeno in parte, ciò che volevi. Fai un lavoro che non ha orari e quasi non ha gesti, asettico, ripulito da ogni sgradevole contatto umano. Non ricordi nemmeno più quando ha preso piede in te questa necessità di limare, escludere, cancellare tutto: rapporti, viaggi, imprevisti quotidiani. Sai solo che ora che hai quasi raggiunto l’obiettivo, lisciato ogni contorno, pareggiato ogni asperità, non ricordi più perché l’hai fatto. Ti chiedi per quanto tempo sarà possibile barare scrivendo il tuo articolo giornaliero senza lasciar capire che dietro è stato tolto l’audio dell’esperienza.
O forse tu non te ne accorgi, ma lo si è sempre capito: forse ha ragione chi dice che non si può mai barare davvero, neanche scrivendo, e dunque davanti a chi ti legge sui giornali hai l’aria di quei bambini che non vedendo credono di non essere visti.
D’altra parte, a barare hai cominciato presto. Hai cominciato presto a credere che le parole corrano parallele alle cose, e che senza conoscere davvero con i sensi, senza scontare col dolore un determinato stato di cose si possa per qualche coincidenza formale, tramite una specie di procedimento algebrico, darne con le parole un equivalente in grado d’ingannare sulla totale inesperienza dei fatti. A forza di tagliare ponti, sei riuscito a rielaborare un passato leggendario in cui attraversi fino in fondo situazioni che nella realtà hai appena sfiorato: ti sei costruito a posteriori un’adolescenza normale, una prima giovinezza decente di compagnie e bravate. E quasi quasi ci credi.
*
Stamattina mi ha svegliato il giornale. La voce del direttore, col suo forte accento bolognese, mi chiedeva di andare a coprire la consegna del Bolognino d’oro a una mia vecchia conoscenza, Bernardo Pagi. Dovevo fare, ovviamente, “non pura cronaca, ma uno di quei pezzi così narrativi, così tuoi... E poi, Marco, almeno stavolta non sarai troppo satirico, o no? Se ben ricordo era un tuo modello...”.
La parola modello m’infastidisce: un fratello maggiore, vorrei dire. Ma non sarebbe del tutto vero. Il fatto che in apparenza Pagi rifiutasse di esercitare qualunque potere pedagogico non aveva reso per me il suo percorso meno esemplare.
Mi alzo col collo bloccato, la bocca amara e il solito dolore alla caviglia. Forse dovrò operarla. Ma finché sto così, mi piace ripetere a chi mi chiede perché zoppico che ho preso una botta a calcio (vero a metà: erano due tiri in cortile) e che sto ingrassando perché non posso praticare l’unico sport che mi diverte (non falso: ma così lascio credere di avere un passato da calciatore che non ho, e che la caviglia mi permette di non dover
dimostrare).
Dunque, quegli articoli miei così narrativi. L’unica narrativa che faccio, ormai: pigiata in un riquadro di giornale, contrabbandata sotto le forme di reportage, commento, pezzo di costume.
Siedo un attimo alla scrivania per controllare la mail prima di vestirmi e partire, e mi accorgo che ieri sera ho lasciato aperto il file del romanzo. Cioè del troncone di romanzo sempre ripreso e mai finito, trasferito negli anni su almeno tre computer.
Continuo ad accumulare libri di ogni tipo, scrivo e pubblico saggi, poesie, racconti, filastrocche e storie per bambini: ma questo file, il Romanzo, non smette di trascinarsi. E il problema non è solo la mia fissazione della pagina pulita, il bisogno di risolvere ogni scritto in pochi giorni, pena l’insabbiamento o l’abbandono. È una specie d’inibizione opaca, il sospetto di superare la soglia dell’hybris. Malgrado sappia bene (forse fin troppo bene) dove andare a parare con trama e forma, dopo un po’ che accumulo materiale subentra puntuale la nausea, un cincischiare frustrante e improduttivo; come se tenere insieme la passione dello stile, la vita dei personaggi e i miei sospetti critici sul genere-romanzo, mi costasse uno stress insopportabile per il sistema nervoso, che oltre un certo limite collassa.
Meglio chiudere. Mi vesto sommariamente, esco nel freddo marzolino di via Castiglione.
(continua in libreria)