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Culture
Morto il regista Tavernier, sosteneva una "via diversa" alla Nouvelle Vague
(fonte IPA) Bertrand Tavernier

Il regista, sceneggiatore e produttore francese Bertrand Tavernier è morto oggi 25 marzo all'età di 79 anni a Sainte-Maxime nel Var, dove risiedeva in Francia con la moglie e i figli, che hanno dato la notizia tramite social network. Tavernier si era formato in una casa di letterati, il padre era poeta e scrittore, avvicinandosi presto al cinema: iniziò come critico, fondò il Cine Club Nickelodéon che promuoveva film americani di serie B, e intervistò registi statunitensi come  John Ford, Raoul Walsh, Joseph Losey, John Huston. Esordì alla regia a 32 anni, nel 1974, con il lungometraggio L'orologiaio di Saint-Paul, che vince l'Orso d'Argento al festival di Berlino e il Premio Louis-Delluc.

Bertrand Tavernier, narratore di sentimenti

Come accade a molti grandi del cinema, Bertrand Tavernier con il suo film d'esordio conquistò la critica ma anche il pubblico. "L'orologiaio di Saint-Paul" nel 1974 vinse l'Orso d'argento alla Berlinale e il prestigioso premio francese Louis Delluc, e nelle sale fu un successo. Merito certo della sceneggiatura, tratta da un romanzo di Georges Simenon, merito certo degli interpreti, un immenso Philippe Noiret, protagonista, e un perfetto Jean Rochefort, antagonista.

Ma merito soprattutto della regia di Tavernier, che mostrò subito il suo sguardo partecipe e la sua maestria matematica nella scansione del racconto attraverso le sfumature dei sentimenti e le maree delle emozioni. L'orologiaio Noiret, vedovo e padre di un assassino del quale scopre improvvisamente e tragicamente di non aver saputo mai nulla, viene seguito dal regista nella sua pena enorme e nella catarsi dell'affetto estremo che, se non la guarisce, le dà senso e profondità.   

Quel film segna la nascita di un sodalizio con Noiret, rinnovato felicemente nel successivo "Che la festa cominci", del 1975. Ambientato nella Francia del Reggente Filippo d'Orleans, impersonato da Noiret, anche qui affiancato da Jean Rochefort nei panni dell'ambiguo e arrivista suo consigliere, abate Dubois. La vicenda si svolge nel 1719 e ruota attorno al velleitario tentativo di un nobile di proclamare una repubblica in Bretagna, che Tavernier, concentrandosi sul rapporto reciprocamente ingannatorio e utilitaristico del Reggente dell'abate, sa rappresentare come una farsesca incubazione della Rivoluzione che cambierà la Francia 70 anni più tardi.    

E ancora Noiret è protagonista di "Il giudice e l'assassino" (1976), terza opera di Tavernier e sua prima incursione nel 'noir', che frequenterà ancora come hanno fatto altri maestri della 'Nouvelle vague', (su tutti Claude Chabrol), ad esempio con "Colpo di spugna" (1981), sempre con Noiret, capo della polizia e omicida, immerso nella torpida e torbida atmosfera di una colonia francese in Africa occidentale alla vigilia della seconda guerra mondiale. O con "L'esca" (1995), storia di due disperati Bonnie&Clyde, Orso d'oro a Berlino, o con "Legge 627" (1992), su una squadra di poliziotti antidroga.

In mezzo, ci sono due capolavori: "Una domenica in campagna" (1984, palma d'oro per la regia a Cannes), crepuscolo di un pittore narrato in una sola giornata di fine estate dove la figlia Irene (Sabine Azema) passa come una irraggiungibile cometa, e "La vita e nient'altro" (1989), struggente riflessione sulla morte e sulla guerra negli occhi di un ufficiali, di nuovo Noiret, incaricato di scegliere le spoeglie di un soldato che diventerà il milite ignoto nel sacrario nazionale.   

Ma c'è un film di Tavernier che anche i meno cinefili ricorderanno, perchè il suo titolo, "La morte in diretta" (1984) è diventato un luogo comune come "La dolce vita" felliniana. Una scrittrice (Romy Schneider) malata terminale viene convinta da un'emittente televisiva a vivere sotto le telecamere i suoi ultimi giorni. Ma lei ci ripensa e fugge, inseguita da un cameraman in incognito (Harvey Keitel), che la filma di nascosto e contro la sua volontà. Un apologo magistrale, anticipatore del voyeurismo televisivo che ha partorito isole dei famosi e grandi fratelli e tutto il lungo rigagnolo dei reality.    

Nella sua lunga carriera, punteggiata da cinque premi Cesar, Tavernier si è dedicato anche al documentario ("Mississippi Blues") sempre con quel suo sguardo partecipe, un po' malinconico, mai rassegnato nè moralista. Fino al suo ultimo "Quay d'Orsay" (2013), storia di un giovane funzionario che scrive i discorsi del ministro degli Esteri, compreso quello, decisivo, in cui si accusa falsamente l'Iraq di possedere armi di distruzione di massa. Venezia, che forse lo aveva trascurato, gli consegnò il Leone d'oro alla carriera nel 2015.

 

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