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Novità editoriali
"Perché disturbarsi a votare?". Il libro del politologo Adam Przeworski
Da questi esempi circoscritti al nostro paese, si comprende che ha senso preoccuparsi delle elezioni. Ed è essenziale che si comprenda il valore di libertà (e stabilità nella libertà) delle elezioni. Quel che oggi serve è un sistema migliore o più efficace di formare le maggioranze e di monitoraggio dei politici, così da rendere l’operato degli eletti più accountable, non solo per via di codici penali. La separazione del sistema politico da quello di altri settori decisionali dello Stato, come la burocrazia o la giustizia, è una condizione essenziale per contenere il potere dei partiti e delle maggioranze, come giustamente sostiene Cassese. Inoltre, intervenire nella sfera socio-economica con politiche che combattano le diseguaglianze con politiche redistributive sarebbe altamente desiderabile. Tutto questo significa che i problemi della democrazia contemporanea sono multidimensionali, e non facili da affrontare. Ma non dipendono dal fatto che ci sono elezioni. Se vogliamo la democrazia dobbiamo volere le elezioni.

Infatti, che cosa abbiamo alla fine se non discussioni, dissensi e conflitti su come governare la nostra società? E come risolviamo questi dissensi permanenti se non (anche) con elezioni periodiche? Non vi è soluzione al moto politico. Non vi è un punto finale da raggiungere, poiché in questo caso si dovrebbero abolire le elezioni. Le quali ci promettono maggioranze a tempo, non una maggioranza risolutiva (che maggioranza non sarebbe più). La democrazia è quell’ordine politico in cui ogni decisione politica è penultima. E così siamo tornati al valore delle elezioni. Così conclude Przeworski: alla fine, conta molto meno chi vince un’elezione e molto più che ci siano elezioni perché grazie ad esse le divisioni (ineliminabili) tra liberi cittadini possono continuare ad esistere. Sapere che nemmeno la maggioranza più insopportabilmente demagogica, xenofoba e nazionalista durerà è un sollievo, e la ragione che ci fa stare al gioco. Stare insieme dividendoci e dissentendo: questo ci consentono di fare le elezioni. 

In questo libro Adam Przeworski, tra i maggiori scienziati politici e studiosi di democrazia, ci dimostra con argomenti convincenti che votare è importante e democratico e che le elezioni sono il sistema migliore tra quelli ideati nel corso dei secoli per risolvere conflitti politici senza negare la libertà. Il migliore, anche se non esente da insoddisfazioni. Il risultato delle elezioni spesso ci lascia contrariati – o perché il nostro candidato o il nostro partito perde o perché, se vince, non fa quel che aveva promesso. Sbagliamo se pensiamo di giustificare le elezioni a partire da quel che ci danno ovvero dal loro esito materiale e concreto. Le elezioni non ci promettono di darci certezza sull’efficacia del nostro voto. Non ci promettono che la scelta che uscirà dalle urne sarà quella giusta, o che il nostro voto abbia una rispondenza in quel che succederà a seguito delle elezioni, in quello che i politici faranno o non faranno. «Non c’è niente di “non democratico” nell’elezione di Donald Trump o nella crescita di partiti anti-establishment in Europa» scrive Przeworski. Dunque, chi cerca di giustificare il voto appellandosi a ragioni di competenza, di giustizia sociale e di rispondenza rappresentativa sceglie una strada sbagliata – non solo non riesce nell’intento, ma mette a repentaglio la fiducia nelle elezioni, e quindi nella democrazia che è rinata nell’età moderna insieme a esse.

Dunque, «perché votare?». Le elezioni, ci dice l’autore, svolgono una sola ma grande funzione: quella di pacificare la società senza reprimere la libertà e soffocare il dissenso. Esse consentono una competizione libera e non distruttiva tra cittadini e proposte politiche. Consentono di tenere la società politica in moto permanente senza farla precipitare nel caos. L’insoddisfazione per gli esiti delle elezioni non è insoddisfazione per il meccanismo elettorale, ma per come viene regolato e utilizzato. È insoddisfazione per i sistemi elettorali e quindi per chi li ha escogitati, ovvero il personale politico dei partiti. La periodicità delle elezioni è parte della «bontà» delle elezioni: una periodicità autonoma dalla volontà di qualcuno (nei casi di elezioni anticipate, come nelle democrazie parlamentari, questa eccezionalità è rigorosamente regolata e per quanto possibile sottratta all’arbitrio). Essa è parte delle «regole del gioco» (che nessun giocatore possiede) e vale a darci un senso di sollievo – ci assicura che chi governa oggi può essere cacciato all’opposizione domani. Il sollievo di sapere che ogni maggioranza e ogni leader sono a tempo – questo è il grande pregio delle elezioni.  

Przeworski fa sua la concezione che Norberto Bobbio propose della democrazia dei moderni. I cittadini delle democrazie, sosteneva Bobbio ne Il futuro della democrazia, si promettono reciprocamente tre cose: a) che tutti possano dissentire liberamente e pubblicamente sul significato della loro partecipazione come soggetti politicamente uguali alla costruzione della legge; b) che le divergenze vengano temporaneamente risolte mediante decisioni prese conteggiando ogni singolo voto in base al principio di maggioranza; e infine c) che nessuna decisione venga considerata definitiva o indiscutibile. Le nostre società sono democratiche in quanto prevedono libere elezioni e più di due partiti in concorrenza tra loro; in quanto consentono un’effettiva competizione politica e un confronto tra varie opinioni alternative; e, infine, in quanto fanno sì che gli eletti siano oggetto di monitoraggio e di valutazione da parte degli elettori, oltre che di controllo da parte degli organi istituzionale e giudiziari.

Oggi, le elezioni non godono di molto credito. Con esse screditati sono i partiti e la democrazia rappresentativa e parlamentare. L’opinione contro le elezioni è crescente tra gli studiosi, anche se nessun critico propone di ritornare alla democrazia diretta, che sarebbe la vera alternativa alla democrazia elettorale, o di abolire le elezioni, che sarebbe l’equivalente di un cambio di regime. L’opinione dei critici è però corrosiva. Dominata da coloro che, per esempio, propongono il sorteggio e da coloro che vorrebbero contenere il ruolo delle elezioni ed ampliare quello dei competenti. Recentemente Beppe Grillo ha sollevato la questione se il Parlamento eletto funzioni bene e se la democrazia elettorale sia una buona cosa. Intervenendo sul suo blog a fine luglio scorso, il fondatore del Movimento Cinque Stelle ha proposto di rendere una delle due Camere, il Senato, sorteggiata. Non per individuare rappresentanti – egli sa bene che questi sono una creazione delle elezioni – ma per creare una Camera di giudici imparziali che svolga coerentemente la funzione del monitoraggio e del controllo.

Grillo ripropone dopo settant’anni quel che aveva proposto Guglielmo Giannini nel 1945 – la necessità di eliminare alla radice l’inganno perpetrato dalle elezioni (e dai partiti che sono la loro creatura). Le elezioni, sosteneva il leader del Fronte dell’Uomo Qualunque, generano competizione e scatenano gli appetiti dei partiti, i quali aspirano a vincere per piazzare i loro esponenti nelle istituzioni. La «partitocrazia» (un termine che in Italia risale a Giuseppe Maranini e che venne usato alla Consulta dal liberale Roberto Lucifero) è il portato delle elezioni. Le quali sono all’origine del grande inganno della democrazia rappresentativa, scriveva Giannini in La Folla. Infatti, le elezioni tengono la società come in guerra permanente anche se non per risolvere i problemi del paese bensì per alimentare «la casta»; ci fanno credere che una classe politica è necessaria al funzionamento dello Stato e che la democrazia consista nel creare questa classe con il consenso diretto dei cittadini. La proposta di Giannini era di sostituire le elezioni con il sorteggio. Grillo dice sostanzialmente lo stesso.

Qual è la ragione di tanta animosità contro le elezioni? Grillo mette in discussione il sistema democratico così come lo conosciamo in Italia almeno dal 1945, e di fatto condanna il nostro sistema istituzionale: «È rotto, non funziona, ma non avendone un altro migliore non ci resta che capire cosa non funziona». E non funziona, conclude, perché riposa su un sistema di selezione intenzionale; mentre dovrebbe dipendere interamente dalla «selezione casuale».

La proposta di Grillo è stata discussa e criticata sulle pagine del Corriere della Sera da Sabino Cassese, autore di un recente volume sulla democrazia e di una prefazione all’edizione italiana di un libro di Jason Brennan in cui si critica il suffragio da una prospettiva epistemica. Brennan sostiene che, poiché il voto è un potere e come tale può avere effetti diretti sulle nostre vite, a usarlo dovrebbero essere coloro che hanno una qualche competenza. Pur non proponendo (ancora) l’abolizione del suffragio universale, Brennan sostiene che essendo l’esercizio del voto volontario sarebbe auspicabile che non tutti lo usino, certamente non coloro che potrebbero provocare esiti spiacevoli. L’apatia elettorale in molti casi sarebbe benvenuta. Cassese si trova sostanzialmente d’accordo con l’argomento di Brennan. Infatti nel suo ultimo libro Cassese si interroga sulle ragioni del malcontento generato dall’attuale sistema politico e mette sotto accusa l’invadenza della politica, la sua occupazione delle istituzioni e dell’amministrazione pubblica. Sono i partiti il problema, non la democrazia costituzionale. La sua critica è coerente con la sua professione di gius-amministrativista e anche con l’art. 97 comma 4 della nostra Costituzione, che recita: «Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge». Si tratta di un limite importante della democrazia – un fermo alla logica elettorale, che premia le partigianerie, in nome della logica della competenza. È la pubblica amministrazione che Cassese vuole giustamente proteggere, dalla tentazione bulimica del potere politico. Ma questo non comporta collegare le elezioni alla competenza o ridimensionare il valore delle elezioni.

L’invadenza dei partiti nell’amministrazione pubblica (sulla quale le osservazioni di Marco Minghetti del 1881 sono ancora valide) la si combatte con le regole costituzionali e la divisione dei poteri, non escogitando metodi per rendere la scelta elettorale competente e nemmeno restringendo il dominio delle questioni nelle quali il Parlamento è chiamato a esprimersi. Con gli «epistocratici» che, da Platone all’americano Brennan, aspirano a mettere la democrazia in un recinto stretto se non ad abolirla del tutto, il giurista Cassese vorrebbe quindi allargare gli spazi di intervento delle «componenti aristocratiche dello Stato democratico».

Sono stata sempre convinta che la difesa della democrazia a partire da ragioni di competenza (ma anche di eguaglianza nel senso proposto da Jean-Jacques Rousseau: che tutti possano giungere a decisioni buone e non controverse se sono messi in condizione di ascoltare non i loro interessi privati ma solo la «volontà generale») sia non solo (democraticamente) opinabile ma pericolosa. Le ragioni, diversissime di Grillo e di Cassese, ci aiutano a capire perché: al fondo, lo scontento per la democrazia è scontento per i fallimenti associati all’eguaglianza di potere politico; ovvero per l’inclusione nel corpo elettorale di tutti coloro che sono soggetti alla legge (negli Stati moderni coloro che sono cittadini) senza alcuna «discriminazione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali» come recita l’art. 3 della nostra Costituzione. L’aristocrazia è l’opposto della democrazia; ma lo è anche il giudizio imparziale rispetto a quello politico.

Lo scontento di Grillo e quello di Cassese è scontento per la disfunzionalità immessa dalle elezioni e prodotta dalla competizione politica tra le parti. Cassese ha commentato criticamente la proposta del sorteggio ma è restato nell’alveo del problema posto da Grillo; la sua risposta ha messo in dubbio la bontà del sorteggio con l’argomento per cui esso ci darebbe un Parlamento di non competenti, di meno competenti degli attuali rappresentanti. Se si giudica il lavoro del Parlamento come si potrebbe giudicare quello di un collegio di esperti si fuoriesce dalla democrazia. Infatti, se si vogliono selezionare tecnici o esperti, meglio non ricorrere alle elezioni. La difesa del Parlamento eletto con l’argomento della competenza è una difesa molto debole. Sulla disfunzionalità delle elezioni epistocratici e amanti del sorteggio non hanno visioni diverse.

E torniamo così a Giannini, il politico che nell’Italia moderna ha per primo proposto un Parlamento di sorteggiati, prima ancora che la partitocrazia si palesasse, prima che ci fossero libere elezioni.

Giannini sosteneva che occorresse eliminare i partiti (la casta) e propendere per un sistema politico che ne facesse a meno; che cioè non fosse basato sulle elezioni. Occorreva prima di tutto un governo «minimo» e solo «amministrazione» e un Parlamento che doveva solo controllare e monitorare i ministri, funzioni che meglio si addicono a un’assemblea di sorteggiati casuali. Le elezioni scatenano visioni partigiane e differenze di prospettiva. Quando si tratta di arbitrare o controllare, meglio il sorteggio. Quando si tratta di decidere quali politiche perseguire non si può evitare di schierarsi a favore o contro; qui il sorteggio non serve. Meglio le elezioni. Quindi per ridurre il peso delle elezioni occorre accrescere la funzione dei tecnici e dei competenti. La proposta di Giannini riposava su una visione di Stato minimo che piacerebbe al neo-liberista Brennan, e anche al nostro Grillo, che ha spesso e volentieri manifestato fastidio per uno Stato che fa troppo.

 

Sappiamo che le elezioni sono un evento moderno – soprattutto se adottate per formare l’assemblea legislativa. Nelle repubbliche antiche, la democrazia era identificata a) con la presenza diretta di tutti i cittadini maschi e maggiorenni (poveri e ricchi) in assemblea e b) con il sorteggio, quando e se si rendeva necessario selezionare alcuni cittadini. Sorteggiata era la giuria che componeva il tribunale del popolo, e altri consigli amministrativi nei demi di cui si componeva la polis di Atene, come ci ha spiegato Josiah Ober. Chi come Grillo esalta il sorteggio e indica l’Atene classica come modello di buona democrazia, non dice che là il potere di votare era e restava politico: non si usava alcuna forma di selezione; i cittadini stessi sedevano in assemblea, che era il luogo dove demagoghi buoni e cattivi si esibivano alla ricerca del consenso. E l’assemblea ateniese prendeva anche pessime decisione (come quella tragica di lanciare la spedizione siciliana).

Gli ateniesi praticavano il sorteggio quando dovevano selezionare i membri di assemblee giudicanti, non di quelle politiche. E questo a ben guardare lo fanno anche le nostre democrazie. Anche l’Italia. Non c’è bisogno di andare in America Latina o in Canada o in Islanda per cercare esempi di assemblee formate per sorteggio. In un contesto segnato da esigenze di contrasto alla corruzione e di evidente calo di fiducia nei partiti, si estendono i settori nei quali si fa uso del sorteggio. Nelle amministrazioni pubbliche, si amplificano gli spazi della decisione sottratti alla politica a favore di criteri imparziali come il sorteggio: in materie che vanno dagli appalti alla nomina dei revisori di enti pubblici, sino alla composizione delle commissioni chiamate a selezionare funzionari e dirigenti dello Stato.

Le elezioni hanno sostituito la presenza diretta dei cittadini nell’assemblea, dove si fanno le leggi. Il sorteggio non è mai stato eliminato nelle democrazie moderne; è stato confinato (come nelle democrazie antiche) alle questioni dove si richiedono giudizi di imparzialità – la composizione delle giurie popolari è uno di questi casi. Che cosa comporterebbe trasferire questo metodo di selezione all’organo politico, il Parlamento? Comporterebbe cancellare il Parlamento; sostituire la politica con la tecnica, secondo un mito positivistico ed epistemico di «onestà» e «buon governo» che pare dipendere dall’eliminazione alla radice della ragione della corruzione: la competizione aperta per il potere politico. Se la politica diventasse un’amministrazione tecnica, se fosse liberata da quel che la rende un oggetto di piacere – la competizione per ottenere la maggioranza e vincere – allora ci sarebbe meno corruzione.

 

I critici della democrazia vorrebbero fare a meno dei partiti – questo è oggi, in Italia, il vero oggetto della critica alle elezioni. Il fatto è che «le parti» si manifestano non appena i cittadini aprono bocca in pubblico e discutono. Scriveva Bobbio ne Il futuro della democrazia che le Costituzioni del dopoguerra (quella italiana e quella tedesca, per esempio) contengono espliciti riferimenti ai partiti, alla loro partecipazione alla formazione dell’opinione politica. Si tratta, sosteneva Bobbio, di riferimenti ridondanti (anche se utili a ricordare l’origine pattizia e partitica delle Costituzioni democratiche), poiché in una società dove la politica è agire libero e pubblico le parti nascono fatalmente, non vengono promosse dalla Costituzioni. O si elimina la libertà alla radice facendo della politica il luogo dei sapienti e degli esperti, o ci si deve rassegnare alla formazione di «parti», che nascono come funghi, anche quando non contemplate dalle Costituzioni.

Da questi esempi circoscritti al nostro paese, si comprende che ha senso preoccuparsi delle elezioni. Ed è essenziale che si comprenda il valore di libertà (e stabilità nella libertà) delle elezioni. Quel che oggi serve è un sistema migliore o più efficace di formare le maggioranze e di monitoraggio dei politici, così da rendere l’operato degli eletti più accountable, non solo per via di codici penali. La separazione del sistema politico da quello di altri settori decisionali dello Stato, come la burocrazia o la giustizia, è una condizione essenziale per contenere il potere dei partiti e delle maggioranze, come giustamente sostiene Cassese. Inoltre, intervenire nella sfera socio-economica con politiche che combattano le diseguaglianze con politiche redistributive sarebbe altamente desiderabile. Tutto questo significa che i problemi della democrazia contemporanea sono multidimensionali, e non facili da affrontare. Ma non dipendono dal fatto che ci sono elezioni. Se vogliamo la democrazia dobbiamo volere le elezioni.

Infatti, che cosa abbiamo alla fine se non discussioni, dissensi e conflitti su come governare la nostra società? E come risolviamo questi dissensi permanenti se non (anche) con elezioni periodiche? Non vi è soluzione al moto politico. Non vi è un punto finale da raggiungere, poiché in questo caso si dovrebbero abolire le elezioni. Le quali ci promettono maggioranze a tempo, non una maggioranza risolutiva (che maggioranza non sarebbe più). La democrazia è quell’ordine politico in cui ogni decisione politica è penultima. E così siamo tornati al valore delle elezioni. Così conclude Przeworski: alla fine, conta molto meno chi vince un’elezione e molto più che ci siano elezioni perché grazie ad esse le divisioni (ineliminabili) tra liberi cittadini possono continuare ad esistere. Sapere che nemmeno la maggioranza più insopportabilmente demagogica, xenofoba e nazionalista durerà è un sollievo, e la ragione che ci fa stare al gioco. Stare insieme dividendoci e dissentendo: questo ci consentono di fare le elezioni.

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