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Politica
L’autunno del patriarca Silvio Berlusconi

Silvio Berlusconi e la pace in Ucraina

“Durante il fine settimana gli avvoltoi s'introdussero nella casa presidenziale, fiaccarono a beccate le maglie di filo di ferro delle finestre e smossero con le ali il tempo stagnato nell'interno, e all'alba del lunedì la città si svegliò dal suo letargo di secoli con una tiepida e tenera brezza di morto grande” (Gabriel Garcia Márquez). Il nulla, questa volta, non ha assunto le sembianze di avvoltoio. Non si replica al nulla, non gli si concede dignità di avversario. L’autunno del patriarca ci intristisce, la brezza di morto grande ci stordisce.

Eppure, lui non è morto. Ciò che dice è la verità, quella verità che non siamo più abituati ad ascoltare, vittime come siamo da più di tre anni della mistificazione e della propaganda. Anche dai suoi canali televisivi e dai suoi giornali.

E’ lunedì, ci siamo risvegliati dal nostro letargo ricco di sogni. Il primo articolo s’intitolava “Dopo Silvio Berlusconi, il nulla antropomorfo”. Titolo quantomai azzeccato, visto l’epilogo. Il patriarca vive il suo autunno circondato da cattivi e irrispettosi consiglieri. Abbandonato persino dai suoi fedelissimi nani di Corte. Una vecchiaia umana, banale, se non fosse che lui è il patriarca. Pacifisti convinti, consapevoli che politicamente in questo Paese non contiamo nulla, stanchi di essere rappresentati (malissimo) da spocchiosi professori universitari circondati da suonatori di bonghi, abbiamo giocato l’unica carta che avevamo in mano e abbiamo perso.

Addio Fondazione per la pace, addio Berlusconi and friends for Peace, una squadra di campioni per dare una chance alla pace. Give peace a chance, l’inno pacifista della nostra infanzia fa parte di un’altra epoca, dell’epoca ingenua in cui credevamo nelle magnifiche sorti e progressive. Il risveglio è stato brusco. Kiev, Piazza Maidan, seconda rivoluzione arancione: mercenari pagati dagli americani, spari su persone disarmate.

L’incontro con la morte non è mai come ce lo siamo immaginato. I cadaveri che giacciono con gli occhi aperti, i corpi immobili in posizioni innaturali, il sangue viscido e scuro, l’insensatezza del tutto. La morte ci fa l’effetto della malattia descritta da Emil Cioran: ci consente di avvicinarci a realtà metafisiche che la persona sana neppure intuisce.

Morire per il Donbass, per quella Donetsk che abbiamo amato in un fine settimana di primavera di dieci anni fa. Morire per una guerra di prestigio, una “guerra per l’egemonia”, la più esecrabile nell’oscena gerarchia delle guerre, quella più deprecata da Bertrand Russell. Piangiamo quei morti, consapevoli di non poter fare nulla, più nulla per i loro fratelli che ancora devono morire, aizzati come cani da politici schifosi, nullità antropomorfe. Ringraziamo il patriarca per le parole di verità, merce rarissima in questo presente distopico. Tornerà la pace (a quale prezzo? Una guerra atomica?) e rispunteranno i pacifisti di sinistra ad ammorbarci coi loro drappi volgari e i loro bonghi da centro sociale. Noi saremo decrepiti, forse già morti, ma non ci importa: con loro non avremmo festeggiato.

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