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Economia
Torna l'allarme sul debito pubblico: tassi a rischio col "metodo Draghi"
Mario Draghi

L'effetto combinato di guerra e inflazione mette a serio rischio la ripresa


C’è una bomba a orologeria su cui siamo seduti senza rendercene conto. È l’emblema del cosiddetto “meccanismo a catena” e rischia un’altra volta di dare una mazzata in testa all’Italia tutta e alla sua ripresa. Si tratta del debito pubblico italiano, argomento messo in un cantuccio negli ultimi due anni ma che ora tornerà di grandissima attualità.

Perché? Per un insieme di congiunture sfavorevoli. Prima di tutto: la guerra in Ucraina ha tarpato le ali a una crescita che, all’inizio dell’anno, veniva vista intorno al 4,3% e che progressivamente è stata tagliata fino ad arrivare all’attuale 3,1%. Ma attenzione perché un’ulteriore sforbiciata potrebbe essere dietro l’angolo, come ha ricordato Confindustria. Il pil italiano del 2021 è stato di 1.781,22 miliardi, una differenza dell’1%, dunque, vale poco meno di 18 miliardi di euro. Teniamo a mente questo numero.

La guerra in Ucraina, infatti, non è l’unico problema con cui fare i conti: l’inflazione, che doveva essere transitoria, è destinata a rimanere a livelli elevatissimi per tutto il 2022. Il che significa che gli italiani si trovano un po’ più poveri sia perché la ricchezza cresce meno, sia perché il potere di acquisto si erode. Terzo problema: se cala la crescita, il rapporto tra debito e pil – dimenticato negli ultimi due anni – cresce nuovamente, nonostante gli impegni precisi del governo a ridurlo. Al 31 dicembre di quest’anno era arrivato a 2.678,4 miliardi, cioè poco sopra il 150%. Ma il decreto bollette e quello per il carburante costringeranno l’Italia a indebitarsi nuovamente, mantenendo il deficit su livelli elevati.

 

Dopo dieci anni, "il metodo Draghi" non funziona più

 

Fin qui si tratta di numeri, seppur allarmanti, che non riguardano direttamente gli italiani. Attenzione però, perché da qui in poi invece si analizzano – eccome – gli effetti sui nostri concittadini. Finora le banche centrali hanno pompato liquidità nel sistema, per permettere alle banche di continuare a svolgere il loro lavoro (cioè erogare mutui e prestiti) con tassi bassi per non deprimere la ripresa.

Questo meccanismo è stato inaugurato da Mario Draghi nel 2012, quando era alla guida della Banca Centrale Europea e sostanzialmente è andato avanti per un decennio, proprio per evitare di prestare il fianco alla speculazione. Ma ora, con l’inflazione così alta, l’unico strumento in mano alla Bce è quello di aumentare il costo del denaro.

Cosa cambia per chi chiede un finanziamento

Questo significa che a breve potrebbe partire una corsa al rialzo (in realtà già iniziata) sui tassi dei mutui e dei prestiti. Secondo le elaborazioni dell’Abi, i tassi fissi medi applicati sono passati dall’1,45% di gennaio all’1,6% di marzo e c’è da pensare che aprile non sarà molto differente. Il che significa che una casa da 200.000 euro, con un mutuo trentennale, costa già ora oltre 5.200 euro in più di interessi rispetto a chi ha sottoscritto il contratto a gennaio.

Un altro effetto dell’innalzamento del costo del denaro è che le banche, dovendo pagare maggiormente alla Bce, richiederanno garanzie ulteriori. Pronti, quindi, a una nuova stretta sui crediti? I primi a pagarne le conseguenze sono i giovani, con i mutui agevolati per gli under-36 che potrebbero presto diventare un lontano ricordo, visto che quella categoria di persone è anche quella che offre le minori garanzie causa un mercato del lavoro complesso.

Le minori erogazioni del credito significano anche che le imprese e le famiglie avranno meno denaro da spendere, dando il via a una spirale recessiva che potrebbe erodere ulteriori punti di pil e aumentare ulteriormente il rapporto con il debito pubblico. Tra l’altro, per avere un’idea più precisa di quello che sta per succedere basta aspettare qualche settimana. Tra il 29 aprile e il 15 marzo andranno in scadenza complessivamente titoli di stato per 23,6 miliardi di euro. Si tratta di un Bot semestrale (che aveva una cedola pari a zero) da 6 miliardi, di un altro bot annuale da 7,5 miliardi (sempre a cedola zero) e un Btp indicizzato da 10,1 miliardi con cedola a 0,05%.

Se, come è probabile, tutti questi prodotti dovessero essere rinegoziati a tassi decisamente più elevati, l’Italia si troverebbe a dover pagare maggiormente il prezzo del suo debito. Oggi il Btp a dieci anni ha un rendimento sui mercati secondari del 2,57%. Che cosa succederà nelle prossime settimane? Qui si rischia veramente grosso.

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