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“Perduto è questo mare” di Elisabetta Rasy: il canto sommesso della memoria tra Napoli, paternità e amicizia
Secondo al Premio Strega 2025 e finalista ad altri concorsi importanti, il memoir della Rasy disponibile anche su Audible è intimo e potente

È arrivato secondo al Premio Strega 2025, in una delle edizioni più ricche di voci intense e originali: Perduto è questo mare di Elisabetta Rasy, edito da Rizzoli - ma già disponibile anche su Audible letto da Giuliana Atepi - e proposto da Giorgio Ficara, è molto più di un romanzo: è un labirinto emotivo, una meditazione letteraria sul tempo, la perdita e le relazioni che ci definiscono, anche quando si spezzano. Riconosciuto per la sua complessità compositiva, è stato salutato da critica e lettori come una delle opere più elevate e profonde dell’anno. A colpire è la capacità dell’autrice di coniugare affresco memoriale, rievocazione letteraria e riflessione sul ruolo dell’identità femminile, restituendo una scrittura insieme limpida e stratificata.
Il libro si apre con la morte di Raffaele La Capria, maestro e amico dell’autrice, la cui figura funge da innesco per una riemersione prorompente della memoria. A lui si contrappone, per contrasto e simmetria, la presenza ingombrante e sfuggente del padre, Lello: ex aviatore, gentile e sognatore, poi abbandonato dalla moglie e dalla figlia, infine ritiratosi in una cupa solitudine. «In tutta la sua vita, finché io l’ho conosciuta, c’era stata una gara tra lui e il destino: la guerra, l’amore, il denaro, il lavoro. Lui credeva nella fortuna, ma la fortuna non credeva in lui».
Attraverso una narrazione che sfugge all’ordine cronologico per privilegiare il ritmo ondoso dell’associazione e della rievocazione, la protagonista compie un viaggio nel passato che diventa anche un tentativo di ricucitura: dei legami, della propria identità, delle illusioni. Napoli, scenario e personaggio al tempo stesso, è lo sfondo imprescindibile di questa esplorazione: «una città da cui tutti se ne andavano, un mare meraviglioso da cui tutti fuggivano, l’immagine perfetta delle illusioni perdute, un incrocio tra rifiuto e rimpianto».

Rasy tratteggia con tocco raffinato e sguardo acuto due figure maschili fondamentali. Da un lato il padre, presenza incantata e poi tragica, che diventa simbolo dell’impossibilità di mantenere le promesse: quelle affettive, esistenziali, paterne. Dall’altro Raffaele La Capria, amico fraterno e scrittore-filosofo, osservatore melanconico del mondo e delle sue crepe. «C’era tra noi la più assoluta confidenza intrecciata alla più assoluta reticenza» scrive l’autrice a tal proposito. La loro relazione, fatta di quotidianità e pensiero, riflette quel tipo di intimità che esiste al confine tra amore e riconoscimento.
Il tema della scrittura attraversa tutto il testo come un filo d’oro. Ferito a morte segnò Rasy per ragioni biografiche, ma fu soprattutto la seconda stagione narrativa di La Capria a influenzarla, con quel “tuffo perfetto” che lo scrittore immaginava come modello stilistico: gesto puro che lascia intatto lo specchio dell’acqua, ma che implica un esercizio infinito. È proprio questo equilibrio tra rigore e libertà, tra ricordo e invenzione, a rendere la prosa dell’autrice tanto efficace quanto emozionante.
La Capria rappresenta il “di più” cui ogni vita ambirebbe, secondo Ficara, mentre il padre incarna una «fatale sottrazione», un’assenza tangibile. Entrambi, però, sono ombre sullo stesso fondale: il mare di Napoli, con le sue luci e le sue ombre, i suoi abissi e le sue promesse disattese. «A mio padre mancava completamente il cinismo, ma gli mancava anche il disincanto… tutto lo incantava, positivamente o negativamente» scrive Rasy, restituendo con pochi tratti l’essenza di un uomo imprigionato tra sogno e realtà.

“Chi abbandona chi?” e “Chi hai amato di più?” sono le due domande che attraversano tutto il libro, poste più volte da La Capria e mai davvero risolte. Non sono solo interrogativi esistenziali: sono lo specchio di una tensione tra distanza e vicinanza, tra l’inevitabilità della separazione e il desiderio di ricomposizione. “Solo quando si crea uno spazio è possibile guardare al padre in modo nuovo, raccogliere la sua eredità, infine scriverne” osserva in un’intervista rilasciata a Left la Rasy, che riflette sul senso della distanza come forma necessaria per la narrazione.
Il mare, con la sua ambivalenza, è emblema ricorrente. È l’infanzia felice, il gioco, la promessa di libertà, ma anche il vuoto, la scomparsa, l’irreversibilità. Perduto è questo mare diventa allora formula incantatoria, nostalgia elegiaca, ma anche constatazione amara della distinzione netta tra ciò che siamo e ciò che siamo stati. «Tornando a Roma sapevo benissimo che ormai il regno paterno apparteneva al mondo di ieri, parola che sembra indicare un tempo vicinissimo, quasi ancora raggiungibile, e invece racconta perentoriamente l’irreversibilità del passato».
Come racconta la stessa autrice sempre nell’intervista a Left, il libro nasce da un sogno: “scappo da un luogo imprecisato portando sulle spalle un caro amico molto più grande di me, lo scrittore Raffaele La Capria”. L’immagine richiama Enea e Anchise, ma anche Antigone, Louisa May Alcott, Kafka. La mitologia personale e quella letteraria si intrecciano in un testo che parla della memoria non come semplice rievocazione, ma come forza creativa che riscrive e reinventa.
Elisabetta Rasy, romana classe 1947, storica dell’arte, critica e narratrice, ha dedicato molta parte della sua carriera alla letteratura femminile. Autrice di opere come La prima estasi, Posillipo, Tra noi due e Le disobbedienti, ha sempre indagato i margini, le alterità, i legami. “Non credo a una distinzione radicale tra romanzo e autobiografia – dice ad Affaritaliani.it - Il romanzo è per sua natura una forma ibrida, dunque aperto a varie strategie e opzioni narrative. Una scrittrice o uno scrittore parla comunque di sé e mette sé stesso sulla pagina, anche quando parla d’altro: dall’epica alla fantascienza l’autore e la sua esperienza individuale sono sempre presenti. Oppure può succedere il contrario: io ho spesso parlato di me attraverso altre figure nei miei libri di saggistica narrativa, come in Le disobbedienti, dedicato a sei pittrici di epoche diverse”. Perduto è questo mare lo dimostra: è un testo ibrido, in cui la voce narrante si pone in ascolto degli altri, ricostruendo sé stessa attraverso lo specchio delle relazioni.
Napoli, in questo percorso, resta punto di partenza e di approdo. Una città oggi vitale, ma che nel dopoguerra “era stata abbandonata dalla storia”, come ha dichiarato Rasy a LaPresse. Il romanzo è anche questo: una riflessione sul tempo collettivo, sulla rovina e sul rinascimento, sul modo in cui i luoghi interiori si rispecchiano in quelli reali. “Ripensare a Napoli per me significa non tradire la verità, ma neanche l’immaginazione che da quella verità scaturisce”.
Un ruolo altrettanto decisivo è costituito dalla formazione letteraria, e in particolare dalla fascinazione per la mitologia classica. Di nuovo ad Affaritaliani.it: “Tutta la mia vita, fin dalla prima infanzia, è stata caratterizzata dalle continue letture. Sono, e sono sempre stata, una lettrice onnivora, spaziando dalle fiabe ai contemporanei con la stessa curiosità e passione. Ci sono naturalmente libri che mi hanno colpita in modo particolare o mi sono rimasti nel cuore; alcuni li cito in questo romanzo, opere molto diverse tra loro. Amo molto i primi sei libri dell’Eneide, quelli sul carattere e sui sentimenti, oltre che sulle vicende di Enea, così come amo molto e ho letto e riletto un piccolo classico del genere autobiografico che è Lettera al padre di Franz Kafka. Ne parlo nel libro perché fanno parte del mio patrimonio interiore: sia gli autori sia i personaggi sono figure di un mio personale album dei ricordi e non semplicemente della mia storia culturale”.
Perduto è questo mare è un’opera che sfida i generi e si colloca con grazia e potenza nella grande tradizione della letteratura del Novecento. Un romanzo intimo e universale, che racconta il dolore dell’abbandono e la dolcezza della memoria, la scrittura come esercizio di verità e come gesto d’amore. Un libro che ci lascia con un sentimento profondo, difficile da nominare, ma limpido come la luce sul golfo di Napoli in un pomeriggio d’estate.
