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Politica
Di Maio, guerra con i sindacati. Il vero scontro è sul salario minimo

E’ ormai muro contro muro tra Luigi Di Maio, attuale titolare del dicastero del Lavoro e delle parti sociali, e i sindacati. All’esponente grillino non è andato giù il vertice al Viminale tra sindacati e Matteo Salvini a cui era presente anche l’ex sottosegretario legista Armando Siri, che ha illustrato ai sindacati la proposta di flat tax della Lega. Una proposta che Di Maio non ama, per usare un eufemismo, anche perché sembra ritagliata su misura per l’elettore-tipo della Lega, generando un beneficio per le famiglie del Nord-est multiplo di quelle del Sud (roccaforte grillina).

Ma non è finita qui: dopo aver “preso atto” circa la preferenza dei sindacati a “trattare con un indagato per corruzione invece che con il governo” e aver incassato una nota unitaria con cui Cgil, Cisl e Uil avevano subito ribattuto: “stiamo aspettando la convocazione da Di Maio da 15 giorni”, il vicepremier oggi attacca nuovamente a suon di numeri. Una infografica pubblicata stamane sulla sua pagina Facebook segnala come un anno dopo il varo del “decreto dignità” il tasso di occupazione sia salito al 59%, “il dato più alto dal 1997”, la disoccupazione abbia toccato il 9,9%, “il valore più basso dal 2012” e i contratti a tempo indeterminati siano cresciuti di 328 mila unità tra agosto 2018 ed aprile 2019 (ultimo dato disponibile).

Di Maio commenta, polemico: “Un decreto vergognoso, senza coraggio, siamo pronti alla mobilitazione. Ve li ricordate i sindacati sul decreto dignità? Ebbene, dopo un anno ecco i risultati. Buongiorno!”.  Ma perché si è arrivati a un simile clima di tensione tra sindacati e ministro del Lavoro? L’esponente grillino sembra sposare la tesi secondo cui i sindacati trattano con la Lega perché vogliono “proteggere le pensioni d’oro e i privilegi” ma non è una novità. Già anni addietro l’esponente grillino aveva additato i sindacati “soprattutto quelli storici che si sono trasformati in questi anni” di essere “i veri responsabili del disastro delle condizioni dei lavoratori in questo momento”.

I sindacati, poi, sono colpevoli per Di Maio di essersi opposti in tutti i modi al decreto dignità. I cui risultati peraltro non convincono tutti gli economisti. Avere una disoccupazione al 9,9% è meglio che averla al 10%, certamente, ma la creazione di occupazione eccede il tasso di crescita del Pil e questo non è un bene. In più non risulta che consumi e investimenti siano ripartiti o stiano per ripartire, anzi: come prevede la Ue ma anche la Banca d’Italia, l’economia italiana continuerà a ristagnare anche quest’anno, con un Pil in crescita di un minuscolo 0,1% e, ben che vada, di un 1% all’anno nel biennio successivo. Confermandosi rigorosamente ultima in termini di crescita in Europa.

E se i consumi dovrebbero trarre beneficio dai minori prezzi dell’energia e dal reddito di cittadinanza, il mercato del lavoro rischia di rivelarsi meno dinamico, come già indicano il numero in crescita dei lavoratori in cassa integrazione e le aspettative delle imprese sull’occupazione, che volgono nuovamente verso il basso. Il terreno di lotta più recente e più caldo è però il salario minimo a 9 euro l’ora fissate per legge: per Di Maio “si farà, perché è nel contratto di governo e perché già esiste in molti paesi europei” e sarà approvato “prima del 2020”.

Una misura che potrebbe riguardare fino e 3 milioni di lavoratori e che i sindacati osteggiano, trovando un alleato inatteso in Confindustria che sottolinea come si rischi di smontare il sistema dei contratti nazionali, che non regolano solo il salario ma anche altri temi rilevanti, come ferie, malattia, straordinari. “E far saltare il sistema dei contratti farebbe saltare anche queste tutele” ha già ricordato il vicepresidente di Confindustria, Maurizio Stirpe. Meglio sarebbe, secondo Confindustria, “calcolare un salario minimo per ciascuno dei settori senza contratti collettivi nazionali, a partire dai minimi contrattuali previsti nei comparti da un contratto nazionale”, sottoscritti dalle organizzazioni di rappresentanza più rappresentative. Ossia Cgil, Cisl e Uil. Anche perché pare poco sensato garantire un “minimo” uguale per attività con differenti produttività, di valore diverso, svolte da lavoratori con differenti livelli di qualifica.

L’accordo di amorosi sensi tra i rappresentanti delle imprese e quelli dei lavoratori fa sospettare a Di Maio che la “melina” sia volta unicamente a tutelare le rendite di posizione di entrambe le organizzazioni, visto che con un salario minimo unico non vi sarebbe più la necessità di contrattare a livello nazionale ma, al più, solo a livello territoriale e/o aziendale.

Il rischio, tuttavia, è che un salario minimo unitario faccia volare i costi inducendo le aziende ad abbandonare i settori di attività meno redditizi, se non si interverrà in parallelo tagliando le tasse e il cuneo fiscale sul lavoro. O a scaricare i costi sui prezzi finali ai consumatori, col rischio di far ripartire l’inflazione e ridurre il potere d’acquisto reale degli italiani. O, ancora, che il salario minimo unitario finisca col diventare un nuovo volano per il lavoro nero. Le strade dell’inferno sono spesso lastricate di buone intenzioni, anche se chi le rinfaccia non è esente da peccati.

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