Palazzi & potere
L'affaire UE - IRLANDA su Apple, l'esempio degli USA
Nell'affaire Irlanda-Apple-Europa, balzato agli onori delle cronache nei giorni scorsi, la vera questione da porsi è la seguente: per l'economia di uno stato è meglio avere tanti posti di lavoro sani, redditizi, innovativi e duraturi o è meglio avere un diluvio di soldi di tasse?
Certo, nella vicenda ci sono tanti altri aspetti, anche estremamente complessi, da tenere in considerazione, e noi non vogliamo sottacerli. Ma, per i lettori italiani e dal nostro osservatorio, ci pare che questo sia il vero dato di primario interesse. Come si spiega il paradosso per cui uno Stato sovrano non solo ha fatto accordi che di fatto comportano una riduzione, almeno nell'immediato, dei propri introiti tributari; ma poi, quando un organo esterno allo Stato, ovvero la Commissione europea, gli fa intimazione di recuperare retroattivamente quel denaro, respinge risolutamente l'ordine annunciando che resisterà in giudizio insieme a quella che in teoria dovrebbe esserne la controparte?
Il 'paradosso' si spiega così. Gli irlandesi non sono affatto stupidi, neanche (e in questo caso soprattutto, che è già una notizia) quelli al governo. Si sono fatti i loro conti, ma a lungo termine, già da diversi lustri orsono. Su un piatto della bilancia hanno messo la possibilità, in principio del tutto teorica, di incamerare cospicui introiti con una robusta tassazione sulle imprese, a scopi ovviamente di welfare, senza contare però che queste aziende non c'erano affatto; sull'altro piatto c'era la chance di attrarre imprese ad alto valore aggiunto, ad alta intensità tecnologica, che in quel paese povero, a base soprattutto pastorizia, non c'erano mai state, ma in cambio ovviamente di una tassazione 'aggressiva' nel senso opposto.
La scelta, e i risultati, sono quelli che tutti conosciamo. La tassazione sulle imprese in Irlanda è la più bassa di tutta la UE ed il PIL galoppa, come i consumi. Le sole strutture della Apple, escluso l'indotto, danno lavoro ad almeno 6000 persone, entità che andrebbe moltiplicata per un multiplo pari a quello che dà il rapporto tra la popolazione irlandese e la nostra per capirne il significato. Un primo aspetto da considerare è questo: fatta salva una rete di sicurezza sociale indispensabile e indiscutibile per i più sfavoriti, anche a voler immaginare un gioco a somma zero (che non c'è), è meglio intanto, nei limiti del possibile e del ragionevole, che la ricchezza sia creata dal lavoro e utilizzata direttamente dalle persone che la creano come meglio credono per consumi e risparmio, piuttosto che sequestrata dall'alto e distribuita autoritativamente secondo arbitrari criteri politico-amministrativi (magari in 'redditi di cittadinanza' per chi non lavora...e perché, poi, non lavora?). E' poi fuori discussione che la creazione di posti di lavoro stabili determina a sua volta introiti da tassazione di quel lavoro, allargando la base imponibile.
Questa possibilità per un paese ragionevole è stata finora favorita, o almeno non ostacolata, dal fatto che l'UE è pressoché priva di poteri attivi in materia fiscale (mentre ne ha molti, attenzione, nell'ambito della concorrenza). Ciò legittima anche, almeno in parte, la possibilità di raggiungere ulteriori accordi ancora più vantaggiosi (tax rulings), come si è fatto con la Apple, purché questi non siano discriminatori tra imprese operanti nello stesso settore (ed è questo un punto di attrito con l'UE, che andrà accertato, sul quale non ci pronunciamo).
La Commissione europea, per non essere tacciata di esulare dalle sue competenze istituzionali, imputa all'Irlanda di violare non i suoi principi in materia fiscale, ma semmai le norme sugli aiuti di stato e sulla concorrenza. E' dalla perturbazione di quest'ultima che deriva l'asserita illegittimità di norme in materia fiscale, o meglio di accordi ulteriori in deroga a quelle norme generali (il famoso 0,005 cui pare si sia arrivati invece del 12,5%). Il guaio è che che, in un mercato unico ma fatto di stati indipendenti-sovrani, è sempre più difficile trovare normative fiscali che non abbiano proprio nessun contraccolpo anche sulla concorrenza.
Sarà forse anche per questo che tanti, in Europa, predicano l'"armonizzazione" delle politiche fiscali, magari in nome del "federalismo" europeo. Non sono pochi neanche, anzi soprattutto, in Italia. Lanciamo una sfida a costoro: di quale armonizzazione si tratterebbe, e di quale federalismo? Vogliamo essere federalisti europei? Perché allora non fare come in una vera Federazione, quella americana?
In America funziona così, molto in breve. Il grosso del prelievo sulle imprese, la Corporate Tax, ha carattere federale e si versa direttamente al governo centrale (non è neanche tanto leggera). Per il resto ogni stato ha una sua imposizione residuale, di norma molto piccola, ma comunque assolutamente libera, insieme alla possibilità di approvare misure anche di favore o scelte discrezionali sul piano amministrativo. Il governo federale, mentre incassa la sua imposta propria, non apre il becco su quello che fanno gli stati e non prende posizione sulle loro beghe, lasciandoli liberi di praticare tutta la concorrenza che credono, fiscale e non. La nostra Commissione, invece, non preleva nulla di proprio (se non i proventi dei dazi esterni) ma poi bacchetta i nostri paesi spesso con fare petulante con vari pretesti. Sono pronti i nostri armonizzatori, i nostri federalisti alle vongole ad accettare lo schema sopra descritto? Ci starebbero i tardivi cultori e riscopritori di Ventotene? Abbiamo seri motivi per dubitarne, per non dire che ci viene da ridere.
Noi però non siamo così ingenui da essere più realisti del re del liberismo. L'Irlanda, da parte sua, non dimentichi che ha ricevuto in prestito ancora pochi anni fa decine di miliardi di euro da parte del MES (ESM in inglese) per salvare le sue banche, e son soldi nostri. Va bene che si tratta di argomenti separati, va bene che è difficile fare un linkage. Ma i conti bisogna farseli bene prima.
Andrea Bernaudo
*Presidente SOS partita IVA