Politica
Pd, il Congresso? La stanca liturgia Dem
Il congresso del Partito Democratico, domenica 2 aprile, chiude il confronto e la conta nei circoli in vista delle primarie del 30 aprile
C’è, ma nessuno lo vede e lo sente il congresso del Partito Democratico che domenica 2 aprile chiude il confronto e la conta nei circoli in vista delle primarie del 30 aprile. E’ una questione da addetti ai lavori, poco più, anche se il risultato finale, rimettendo con la fanfara e i pennacchi i gradi e le medaglie sul petto di Matteo Renzi, di nuovo acclamato Dux del partito, peserà sul quadro politico, sul governo, sul Paese. Gli stessi iscritti partecipano in pochi (alla fine, circa 200 mila i votanti previsti) e con scarsa convinzione: domina ovunque un senso di sazietà e di fastidio per quello che è considerato per lo più un rito all’insegna di una liturgia per spartirsi poltrone anche in vista delle prossime liste elettorali e non un appuntamento per discutere di politica, analizzare il rendiconto di quanto fatto dal partito e dal governo a trazione renziana, confrontarsi su idee, progetti, programmi.
Qua e là s’accendono lampi di scampoli di lotta politica ripulendo gli angolini dove sono annidati, senza speranza, gli ultimi disarmati avversari del “Rottamatore” il cui clan, ovunque, minaccia di non fare prigionieri. Strano, ma non troppo, che in questa “caccia alle streghe” di un tardo stalinismo da tortellino&Sangiovese – una farsa, non certo una tragedia - i più zelanti sono proprio i “rossi” incanutiti ex Pci che non hanno seguito, a sinistra, la nuova “ditta” di Articolo Uno patrocinata da D’Alema, Bersani&C, nella logica mai rinnegata e sempre attuale che il partito viene prima di tutto e che il segretario – chiunque egli sia - è il “migliore”, il capo incontrastato da seguire sempre e comunque, e guai a chi lo tocca.
Un passo dietro l’altro si è giunti al PDR, il partito di Renzi, con la guida del bla-bla, più assolutista che carismatica, una deriva che produce la desertificazione democratica e organizzativa, con un vero e proprio accrocco di partitini personali di mediocri “federali” yes man nel territorio, ad uso e consumo di rais e potentati locali in una commistione invasiva e inquietante fra politica e affari. Per adesso, W Matteo, pur sempre ritenuto dai suoi fan come l’ultimo argine capace di porre l’alt al populismo di Grillo&C, ma anche un po’ sul gozzo a molti per la sua bramosia da ducetto, per le sue furbate da: “Enrico sta’ sereno!”, per i suoi 1000 giorni delle promesse mancate a Palazzo Chigi, per le sconfitte a ripetizione dopo l’exploit del 40% delle Europee, per la spasmodica ricerca dell’elettorato centrista abbandonando al proprio destino quello di sinistra, considerato vecchiume, solo zavorra. Il nemico (leggi il M5S dato primo partito nei sondaggi) incombe, quindi tutti zitti e marciare, anche se nessuno sa verso dove e con chi. Quale partito, quale identità, quale progetto, quali alleanze?
L’ex premier-segretario osserva e tace, ligio alla nuova tattica studiata a tavolino che recita: “Se non ti vedono, non ti sparano”, rinviando a dopo il 30 aprile il ritorno al “fare Renzi”, con il profluvio di tweet e i tre squilli di tromba per le prossime battaglie, su tutte le elezioni politiche sempre nel mirino, appuntamento decisivo per la consacrazione del renzismo o per la sua pietra tombale. Orlando ed Emiliano, l’alternativa? Solo le belle statuine, novelli emuli di Pierre de Coubertin: il bello è partecipare. Così, l’evento di un congresso lanciato come storico per la sua vivacità democratica e di innovative proposte per rivoltare l’Italia come un calzino si riduce a suggellare il partito renziano dell’uomo solo al comando, alla stregua di una bega fra consorterie interessate alla spartizione della torta o di quel che ne resta e lo si continua a pompare per mobilitare i “fans” per la finalissima delle primarie e per indurre gli elettori a non disertare le urne, a cominciare da quelle delle elezioni amministrative dell’11 giugno.
Un appuntamento “a rischio” (quasi 10 milioni di elettori) che – a seconda del risultato - può fare sciogliere a Renzi definitivamente il nodo se anticipare o no le elezioni politiche a novembre. Qui siamo. Con Renzi e Gentiloni che giocano al “gatto e la volpe”, ben sapendo, il premier, che è Matteo il “Gran mossiere”, il solo nel Pd a tirare i fili e a decidere quando e come staccare la spina a questo governo. E i problemi del Paese?
