Affari Europei
Ttip, la strada è ancora lunga. Da Washington: 'Altri due anni di trattative'
Di Tommaso Cinquemani
@Tommaso5mani
Il Partenariato Trans-Pacifico è stato firmato. Gli Stati Uniti e undici Paesi sulle due sponde dell'Oceano sono arrivati ad un accordo per facilitare gli scambi commerciali. È un patto che avvantaggia i Paesi meno sviluppati, che ora potranno esportare negli Usa o in Australia merci con maggiore facilità, ma rafforza anche le imprese Usa e la leadership di Washington nell'area, una leadership commerciale ma anche politica.
Mentre sul Pacifico si brinda, il Ttip (il Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti) langue. Il governo Italiano spinge perché si arrivi ad un accordo di massima entro la fine del mandato di Obama, ma fonti della stessa Amministrazione a stelle e strisce rivelano che i tempi sono ancora lunghi. “C'è molto, moltissimo lavoro da fare”, spiega off the record ad Affaritaliani.it un membro del governo Usa. “Ci sono ancora troppi punti in sospeso, come ad esempio il riconoscimento delle vostre indicazioni geografiche”.
Ma facciamo un passo indietro. L'accordo di libero scambio prevede non tanto un abbattimento delle tariffe doganali, nella maggior parte dei casi ridotte a zero, ma una eliminazione delle tariffe non-doganali. Gli standard insomma. Significa che un bene prodotto in Europa, secondo le leggi Ue, non ha bisogno di ulteriori controlli e certificazioni per essere commercializzato negli Stati Uniti. È una forma di riconoscimento reciproco.
Il problema è che dall'una e dall'altra parte c'è troppa diffidenza. Molti in Europa temono un abbassamento degli standard qualitativi dei prodotti, soprattutto alimentari. Si ha paura di una invasione di Ogm o di prodotti per la bellezza con composti chimici nocivi. La Commissione ha pubblicato un opuscolo per sfatare falsi miti, ma l'opinione pubblica è generalmente contraria all'accordo. Anche tra gli industriali c'è chi ritiene che le Pmi europee non potrebbero reggere l'urto con le grandi aziende statunitensi.
L'Italia guarda al Ttip come una risorsa su due versanti. Prima di tutto come mercato di sbocco per la nostra industria, fatta appunto di Pmi, che vedrebbero aprirsi un mercato sterminato, fatto di 300 milioni di consumatori che amano i prodotti del Made in Italy e di aziende che potrebbero approvvigionarsi in Italia di prodotti semi-lavorati.
In secondo luogo l'agroalimentare italiano potrebbe entrare in massa negli Usa, spodestando il finto Made in Italy. Ma qui sorge un problema. Perché le nostre eccellenze non sono riconosciute negli Usa. A Washington un prodotto tipico non ha significato. Il Parmigiano non deve essere fatto a Parma per chiamarsi in tal modo, deve solo poter essere grattuggiato sulla pasta. Idem per lo Champagne, basta che sia un vino bianco con le bollicine. Eresie per un europeo, quotidianità negli Usa.
E così il governo italiano e Bruxelles dovranno battagliare per ottenere la riconoscimento e soprattutto la tutela delle Indicazioni geografiche nostrane. Una condizione essenziale perché il nostro agroalimentare possa avere successo sui mercati d'oltreoceano e non essere offuscato dall'Italian sounding.