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Cronache
Bolle cambia idea: no a ballerini russi, prima insieme a ucraini per la pace

Il ballerino Roberto Bolle cambia idea sull’Ucraina

“E’ difficile invitare degli artisti russi che non si sono dissociati dal regime”, ha detto il ballerino Roberto Bolle, “è difficile e non credo sia giusto invitarli in questo momento. Credo sia giusto avere una voce unica”. Bolle, artista italiano conosciuto in tutto il mondo, qualche giorno fa al Salone del Libro di Torino si è espresso con questi termini in favore della linea dura contro la Russia. 


Comunque la pensiate l’affermazione di Bolle andrebbe meditata. Perché due mesi e mezzo fa, il 2 marzo, a Dubai il ballerino inviava messaggi di tutt’altro tipo. Nello spiegare la performance del suo gruppo di danzatori ucraini e russi, tutti insieme per la pace, Bolle diceva: “Voglio dare dei segnali di bellezza e di unione di fronte al momento particolarmente difficile come quello che stiamo vivendo, di conflitti e contrasti tra Ucraina, Russia e il mondo intero". Radio Montecarlo lanciava così la performance dell’artista: “Roberto Bolle fa danzare ucraini e russi in una performance memorabile”. “Roberto Bolle danza per la pace”.
Bolle precisava: “La Russia è una patria importantissima del balletto, ma in questo momento è giusto prendere le distanze e condannare assolutamente quello che è stato fatto perché non ha giustificazioni”. 


 

Chiaro! Chiarissimo!
Sul finale dello spettacolo i ballerini, anche russi e ucraini, alzavano cartelloni con la scritta “Peace”, mentre il violinista Alessandro Quarta suonava l'inno ucraino. Ucraini e russi insieme. Della serie: da una parte ci sono i regimi che fanno guerre, dall’altro le persone che le subiscono e vogliono che torni la pace.
Ora sorge il dubbio su quale sia il vero Bolle? Il primo, quello di Dubai, di marzo, o il secondo del Salone del libro di Torino?
Forse Bolle ha semplicemente cambiato idea. Legittimo. Niente di sconveniente. Ma al di là delle migliori intenzioni del ballerino vederlo far retromarcia, ripetere le cose che dicono tutti in Italia, qualcosa vorrà pur dirci, sul ruolo dell'arte e della cultura nel nostro tempo, così priva di sorprese, di espressioni critiche, controcorrente.


Tutti gli intellettuali italiani pensano la stessa cosa sulla guerra in Ucraina? Sembrano diventati degli impiegati del Catasto.
Sono davvero mosche bianche in via d’estinzione quelli che si esprimono contro la vulgata mainstream. Anche perché se non dici le cose giuste non lavori nell'Industria culturale, non scrivi, non pubblichi, non ti pagano, non vai in tv, non hai spazio per te e la tua opera e su di te cala la cappa della censura.

E' sempre meglio dire le cose che chi comanda vuole sentire.

Perché la democrazia dipende dalla qualità degli intellettuali

"Divertirsi significa essere d'accordo. Divertirsi significa ogni volta: non doverci pensare, dimenticare il dolore anche là dove viene mostrato", scrivevano nel secolo scorso due filosofi come Max Horkheimer e Theodor W. Adorno, riferendosi ai tempi drammatici che ci attendevano, con la democrazia diventata un maestoso abbaglio.
E’ lontana anche la stagione di filosofi come Jurgen Habermas che spiegavano la qualità di una democrazia. Un sistema è democratico proporzionalmente alla capacità critica degli intellettuali che vi vivono. Coloro che producono cultura sono il cuore pulsante di una società e del suo spazio pubblico. Le obiezioni espresse permettono all’opinione pubblica di crescere e più la critica si esercita e si può esercitare più quella società risulterà libera.


Un’espressione questa in linea con quelle coniate dalla sociologia critica della Scuola di Francoforte, di cui Habermas, oggi novantaduenne, è uno degli ultimi esponenti.
Furono i due intellettuali della Scuola tedesca, Horkheimer e Adorno, a plasmare il termine Industria culturale per esprime il sapere nel nostro tempo e come si sarebbe presto ridotto a sola merce priva di anima nel capitalismo avanzato. 
Nell’Industria culturale tutto il sapere viene prodotto per essere venduto. Nel tempo cambiano le forme ma la sostanza non cambia. Il sapere che sta dietro a qualsiasi merce, dalla bottiglia di latte al microchip, dall’opera d’ingegno dell’artigiano cinese al colossal cinematografico USA, dall’applicazione al vestito, è un sapere per essere venduto, direbbe il filosofo Jean-François Lyotard. 


Secondo i due pensatori tedeschi l’apparato dell’Industria culturale omologa la cultura e incanala tutti i processi conoscitivi e produttivi, interviene con meccanismi autoritari più sottili di quelli dei Paesi che vivono sotto dittature: lavora per omologazione delle idee e delle produzioni, indirizza il pensiero, massifica l’individuo, facilita il conformismo, silenzia il dissenso. La censura è più subdola che in un vero sistema autoritario poiché si manifesta prima di tutto con l’autocensura: sai cosa è ben voluto da chi ha le redini del potere e la tua produzione avrà spazio e vita se andrà in quella direzione.
Ma questa oramai è paleostoria, oggi che i social media hanno amplificato all’ennesima potenza il potere dell’Industria culturale e la sua pervasività nella vita di ognuno. Simulando una libertà, che è libertà di comprare e vendere, l’individuo e l’intellettuale diventano essi stessi merci di consumo, dove la qualità è ridotta al minimo e la democrazia una variabile consumistica dell’inerzia generale. 

 

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