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Culture

Lo studio della dottoressa T. è al centro di Roma, a pochi passi dalla casa dove Mio Marito e io ci siamo trasferiti due mesi e mezzo prima della sua telefonata da Dublino.

Fra lo studio e la casa c'è il centro estetico Isla, di Cristina e Tiziana, le uniche persone che mi sono diventate subito familiari nel quartiere di una città che ho sempre sentito vagamente ostile e che da quando Mio Marito se n'è andato si è trasformata in una costante minaccia.

Sono cresciuta e ho sempre vissuto a Vicarello, frazione di un paese a un'ora da Roma che dorme e s'annoia sul suo lago.

Sono stata tante cose, lì: triste, felice, con i capelli a caschetto, lunghi, corti, con il morbillo, le ginocchia sporche, ho avuto gli incubi dei dieci anni, i segreti tremendi dei quindici, le delusioni dei venti, gli stupori dei venticinque, ho fatto le cazzate dei dieci, dei quindici, dei venti e dei venticinque, mentre di là cucinava mia madre, usciva e rientrava mio padre, nasceva mio fratello, passeggiava un gatto, un cane, un altro cane, un coinquilino, un altro coinquilino, un altro ancora, mi sono innamorata, sono stata ricambiata, ma poi no, lasciata, ma poi no, annoiata, noiosa, voluta, perduta, cretina, moglie.

Sempre e comunque protetta. Dalla violenza della realtà, dicevo io.

Dalla responsabilità di essere davvero un'adulta o almeno giù di lì, dicevano gli altri: finché tibasta attraversare un pezzo di orto per essere a casa dei tuoi genitori è una finta tutto, lo capisci o no?

Fatto sta che non me ne sarei mai andata, se l'impianto elettrico non fosse marcito e se la Mia Casa di Vicarello non avesse preteso con tutta se stessa una ristrutturazione: ma ci sarebbe voluto tempo, era stato il responso degli operai, parecchio tempo. E allora perché non affittiamo una casa a Roma per un paio d'anni, così, se finalmente ti convinci che si vive molto meglio lì, cioè lontano da mamma e papà anziché a tre pomodori di distanza, cioè dentro le cose anziché fuori (fosse solo perché io, invece di farmi due ore in macchina per andare e tornare dallo studio, potrei arrivarci a piedi e tu che non guidi potresti smetterla di vivere in treno), vendiamo la casa di Vicarello e ne compriamo una in città?, aveva proposto Mio Marito.

Avevo risposto va bene: tanto, se dovevo venire esiliata da Vicarello, per me un posto valeva l'altro, bastava che con me ci fosse lui.

Dopo nemmeno tre mesi, però, mi avrebbe lasciata sola, in quella maledetta casa di quel maledetto quartiere di questa maledetta città.

Ma che Isla fosse davvero un'isola, nel rumore inutile che può fare Roma se non sai più chi sei, e che Cristina e Tiziana non avessero niente della simpatia frettolosa, del fare gentile ma impersonale a cui in un modo o nell'altro lavorare da queste parti costringe, me ne sono accorta subito.

Tiziana è sempre divertita, anche quando è seria, ha gli occhi grandi, la faccia in movimento, sembra la protagonista di un fumetto che fa ridere, ma mentre non te ne accorgi, proprio perché non te ne accorgi, ti fa pensare a quello che non funziona, al paradosso dell'essere umano, a Dio.

Cristina è la proprietaria del centro estetico, vive di lunghi silenzi, sguardi mori e intelligenti, adora leggere e fare immersioni, nel mare come in se stessa.

È lei che mi apre quando suono, appena uscita dallo studio dell'analista.
"Hai un buco?" le chiedo.
"Di quanto tempo hai bisogno?"
"Dieci minuti."
Il rimprovero che mi fanno sempre Cristina e Tiziana è di non osare mai una depilazione estrema, un massaggio sperimentale, insomma qualcosa che dia a un'estetista la possibilità di un guizzo, una soddisfazione in più rispetto al portare la cliente al minimo sindacale di decenza.

"Ok, entra," dice Cristina.
E appena le spiego il gioco dei dieci minuti, gli occhi le si riempiono di lucine pericolose. Si mette a rovistare in un cassetto, tira fuori la sua collezione di smalti. Ho paura.
Ne sceglie uno fucsia. Con i brillantini.
Ho ancora più paura.
"Sulle mani no, però."
"Invece sì," fa lei. "Mani e piedi. Magari ci metteremo un po' più di dieci minuti, ma non è un problema, no? Togliti le scarpe e siediti."
Mi tolgo le scarpe e mi siedo.
L'unica tonalità di smalto che abbia mai contemplato è il nero, e comunque con riserva.
Perché siccome scrivi libri non vuoi essere considerata una donnetta fibrillante che racconta storie per capire se stessa, ma vuoi la patente dell'intellettuale rigorosa e impegnata con l'aria malata, grave e pallida, mi hanno sempre detto Cristina e Tiziana.
Perché i colori vivaci, tanto più se accesi, mi sembrano dare a quella realtà che tanto mi spaventa l'autorizzazione a procedere, ho sempre detto io.
Perché tuo padre avrebbe voluto un primogenito maschio e tu non hai mai voluto dargli fino in fondo una delusione, diceva Mio Marito.
Cristina comincia a passarmi una base trasparente sulle unghie dei piedi.
"E a che serve, 'sto gioco dei dieci minuti?" chiede.
"Boh, la dottoressa non me l'ha spiegato. Credo serva fondamentalmente a impegnarmi la testa, a riempire il vuoto e a fare ordine nella confusione che mi ritrovo al posto della vita."
"Sempre meglio il vuoto e la confusione del tuo ex marito." Cristina non è mai stata una grande sostenitrice del mio matrimonio. "Dalla prima volta che sei venuta qui e litigavi con lui via sms, ma non sapevi nemmeno spiegare il perché, si capiva che fra voi non poteva durare."
Non ho ancora trovato il coraggio di confidare a Cristina che dopo l'estate Mio Marito, a modo suo, sta provando un riavvicinamento.
È finalmente tornato da Dublino, diciamo così.
Perché in realtà a Dublino è stato solo tre settimane.
Poi Siobhan, l'interprete che ha conosciuto al master, l'ha annoiato. Allora è partito per New York, si è lasciato per un po' dolcemente morire o dolcemente vivere, a seconda dei punti di vista, d'estate ha pestato il ghiaccio per i mojito in un jazz club, finché non è arrivato settembre.
Il periodo di aspettativa è finito, ha preso in affitto una stanza da un collega ed è tornato a essere il più brillante avvocato del suo studio.
In tribunale, pochi giorni dopo, ha visto la figlia di un imputato che difendeva. Aveva le trecce lunghe, gli occhi terrorizzati e stringeva a sé una giraffa di peluche come fosse l'unico essere al mondo degno di fiducia, capace di darle realmente una speranza.
Il cuore ha cominciato a battergli pazzo, le tempie hanno
preso a sudare, poi s'è fatto buio e lui si è risvegliato a terra, in aula, con le gambe tenute in alto dal suo cliente: aveva avuto un attacco di panico.
Quella bambina gli aveva ricordato all'improvviso una persona.
E che quella persona era sua moglie.
Ci siamo conosciuti che avevamo diciotto anni, Mio Marito e io.
Il nostro liceo partecipava a un'iniziativa del ministero della Pubblica Istruzione che prevedeva la presenza di uno psicologo nelle scuole.
Per ogni classe i professori dovevano segnalare almeno un alunno al mese che, secondo loro, avrebbe avuto decisamente bisogno di un sostegno psicologico.
Nel primo gruppo di segnalati c'eravamo noi due. "Tu perché sei qui?" mi ha chiesto lui.
"Perché secondo me mangio troppo, ma secondo i miei genitori e i professori non mangio niente. Tu?"
"Perché mia madre si è innamorata della sua cartomante e ha lasciato me e mio padre."
"Uh, mi dispiace."
"A me no, non me ne frega niente."
"E allora perché sei qui?"
"Perché i professori credono che invece me ne freghi. Certo che hai delle trecce proprio lunghissime."
"E tu hai gli occhi gialli."
Era già successo tutto.
Siamo cresciuti insieme: così pensavano tutti, così pensavamo noi.
Ma la verità è che non si cresce insieme perché capita o per magia. Bisogna stare, anzi, molto attenti. E se uno dei due cresce anche solo di mezza consapevolezza più in fretta
dell'altro, ma l'altro anziché rincorrerlo ci rimane male e corre da un'altra parte, corre a New York, poi è un disastro ritrovarsi.
Il nostro amore viveva di delusioni e incoerenze già da qualche mese prima della telefonata da Dublino, e ora ha ripreso a farlo: tanto che Mio Marito, mentre ín questi giorni riempie gli scatoloni con la sua roba, afferma di non essersi mai sentito così sinceramente legato a me e io non so se considerarla una dichiarazione romantica o un sintomo patologico.
"Lo sai pure tu che non poteva più andare," insiste Cristina mentre, ecco, tocca allo smalto fucsia. È spaventoso, penso. "Fichissimo," fa lei.
"Sì, sì: certo. Lo so. Ma mi sento proprio persa, in generale." Comincia dall'alluce destro. Aiuto.
"E dai, smettila di fare sempre la lagna. Stai scrivendo finalmente il nuovo romanzo, no? Concentrati su quello." Secondo dito. Poi il terzo, e il quarto.
"Hai ragione, Cri. Però anche lì ci sono delle complicazioni. Mi sfugge di mano. In poche parole, è la storia di due donne che al supermercato si spiano la spesa e s'invidiano la vita: una fa l'attrice, è una randagia affettiva, piena di ardore ma senza pace, l'altra è una madre di famiglia che quella pace sembra averla trovata. Al punto che però, anziché proteggerla, quella pace la soffoca."
"Mi piace."
Il mignolo. Guardala lì. Quell'unghietta minuscola eppure così rosa. Fucsia.
Che schifo.
"Il problema è che mentre, purtroppo e per fortuna, al momento so esattamente che cosa possa pensare e sentire la randagia, non riesco a trovare un'espressione giusta perché sia chiaro davvero cosa prova Erica, la madre di famiglia. Insomma, mi sembra che manchi, nelle pagine dedicate a lei, la parola chiave per entrarle dentro."
Vai col piede sinistro.
"Qual è il suo dramma?"
"Non è proprio un dramma... È come una sensazione. Hai presente quando la vita che fai ti pare sì la tua, ma senza di te?"
Vai con la mano destra.
"Come no. Quando ti pare di andare sottovuoto. Io dico così."
Andare. Sottovuoto. Andare sottovuoto.
Sento proprio l'aria che mi manca e il corpo che si mette a galleggiare, per conto suo, dentro una specie di sacchetto. E fuori dal sacchetto tutto il mondo.
Potrebbe essere così che si sente Erica? Potrebbe? E vai con la sinistra.
I primi dieci minuti sono passati.
Le mie unghie brillano, venti e imbarazzate, di fucsia. Non mi piacciono, ma forse invece sì. Sono talmente po-
co mie, e al momento io mi sono talmente indifferente che,
per contrasto, mi fanno quasi simpatia.
E comunque, grazie a questi dieci minuti, Erica ha una parola chiave perché io possa entrarle dentro.
Ogni tanto, ultimamente, mi sembra di andare, non so come dire: sottovuoto.
Bella, giusta e sua, come espressione.
Per un romanzo ambientato in un supermercato, poi, è perfetta.
Il merito è di Cristina, certo, non del gioco.
Ma non ci fosse stato il gioco, oggi non sarei entrata qui. Be'.
Insomma.
Vale la pena andare avanti.

 

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