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Esteri
Ucraina, Tocci: “La guerra sarà lunga, bisogna evitare che diventi mondiale"
Nathalie Tocci, direttrice IAI (Imagoeconomica)

Chi è Nathalie Tocci

La politologa Nathalie Tocci, 45 anni il 7 marzo, dal 2017 dirige l’Istituto Affari Internazionali (IAI) di Roma, uno dei 20 think tank più influenti del mondo. Insegna all’Università di Tübinga (Germania) e alla Harvard Kennedy School (USA). E’ stata consigliera di Josep Borrell (Alto rappresentante dell'Unione Europea e vicepresidente della Commissione europea), nonché di Federica Mogherini, con la quale ha lavorato alla stesura della strategia globale dell’Ue. Già ricercatrice al Centre for European Policy Studies (CEPS) di Bruxelles, all'Istituto universitario europeo di Fiesole e alla Transatlantic Academy di Washington, dal maggio 2020 è membro del CdA di Eni e quindi ha una conoscenza diretta dei problemi energetici, così determinanti in questa drammatica vicenda. Ormai molto nota anche grazie alle sue frequenti apparizioni nei principali talk-show politici, ha scelto di condividere con Affaritaliani.it il suo punto di vista sulla guerra in Ucraina e le sue possibili conseguenze sul resto del mondo.

Dopo l'invasione dell'Ucraina da parte di Putin, cosa dobbiamo aspettarci?

“Credo che a breve assisteremo alla caduta del governo di Zelensky. Le forze armate ucraine stanno dando filo da torcere ai russi, dimostrandosi molto più preparate di quanto molti immaginassero, ma il rapporto di forza è di dieci ad uno in favore di Putin, quindi è solo una questione di tempo. Ma questa non sarà la fine della guerra, bensì il suo inizio”.

In che senso?

“Sta accadendo una cosa tipica delle situazioni di guerra. Più passa il tempo e si intensifica la violenza dell’attacco, maggiormente cresce l’istinto di resistenza nella popolazione assediata. Si apre appunto la fase della resistenza, che credo possa durare per molto tempo. Ce lo insegnano anche le esperienze degli Stati Uniti in Afghanistan e in Iraq: un conto è far cadere i talebani o Saddam Hussein, ma tutt’altra storia è vincere davvero la guerra. A maggior ragione, questo vale per l’Ucraina, che rappresenta una sorta di paradosso”.

In che cosa consiste questo paradosso?

“Per quanto il paese abbia una sua storia, fino al 2014 ci si poteva sensatamente chiedere quanto effettivamente esistesse una nazione ucraina, sul piano culturale, visto che la vicinanza con la Russia era fortissima. L’invasione del 2014 ha cambiato le cose: si può dire che sia stato proprio Putin a forgiare lo spirito della nazione ucraina. E oggi non credo affatto che sia in grado di soggiogare un’intera nazione di 40 milioni di persone, come non ci riuscirebbe nessun altro. Gli ucraini resisteranno e quindi, lo ripeto, inizia una nuova fase della guerra, della quale non possiamo prevedere la durata. Potrebbero essere mesi, se non anni”.

In che modo le sanzioni possono incidere nello sviluppo della situazione?

“Non saranno certo un deterrente per la marcia di Putin su Kiev. Se però ragioniamo su un arco temporale più lungo, le cose cambiano. Nell’opinione pubblica russa non c’è un largo consenso su questa guerra, a differenza di quanto accaduto con la Crimea, la Siria e la Georgia. Col passare del tempo, le immagini delle vittime civili ucraine faranno ulteriormente calare tale consenso. Parallelamente, le sanzioni inizieranno a pesare e il combinato di questi due fattori finirà con l’indebolire il regime di Putin. Già in queste ore sento dire a molti colleghi russi che l’invasione dell’Ucraina sarà l’inizio della fine di Putin. E non sto parlando di suoi rivali o di sostenitori dei diritti umani, bensì di persone che, seppure con una loro autonomia di pensiero, fanno comunque parte dell’estabilishment del paese. Tutti prevedono che si acceleri un processo di transizione”. 

Una transizione verso che cosa? 

“Nessuno lo sa, in un paese così complicato. Le cose potrebbero persino peggiorare. Quello che è certo è che il probabile protrarsi del conflitto avrà ripercussioni enormi sulla Russia. Sarà una partita molto lunga”.

Una partita nella quale però c’è un solo giocatore in campo: Putin fa quello che vuole, mentre Nato e Unione Europea restano a guardare. È vero che sono state introdotte le sanzioni, ma è rimasta “congelata” la più temuta, ovvero l’esclusione dallo Swift. È comprensibile che l’opzione militare faccia paura a tutti, ma in quale altro modo si può fermare Putin?

Sullo Swift si è frenato perché abbiamo necessità di continuare a importare gas russo, anche se probabilmente ci sarebbe un modo per farlo comunque. Rispetto al resto delle sanzioni, va detto che sono molto pesanti, a differenza di quanto si è detto. Il problema è che il fattore economico è assolutamente irrilevante per Putin: niente lo può distogliere da quello che sta facendo in queste ore. L’efficacia delle sanzioni andrà quindi valutata nel tempo, ma se ci chiediamo quali altri strumenti potranno essere adottati in seguito, è ovvio che si arrivi per forza all’opzione militare”. 

L’opzione militare è quindi inevitabile?

“Su questo, francamente, comprendo la scelta di Biden di non entrare in Ucraina: è chiaro che uno scontro diretto tra soldati russi e americani comporterebbe l’inevitabile inizio della Terza Guerra Mondiale. Prima di arrivare a questo passo è giusto che ci si pensi più volte e, magari, si intensifichi la fornitura di armi agli ucraini per sostenerne la resistenza. E ricordiamo che dal 2014 gli USA hanno già aiutato l’esercito ucraino con 3 miliardi di dollari, ai quali si sono aggiunti i 650 milioni di un paio di settimane fa”.

Tuttavia si sta diffondendo un’immagine di debolezza degli USA. Secondo Prodi, Putin si è convinto di poter procedere con il suo piano di invasione dell’Ucraina dopo aver preso atto del flop dell’Occidente in Afghanistan. È d’accordo?

“Sì. Credo che Putin si sia convinto per due fattori concomitanti, entrati in gioco dallo scorso autunno. Il primo è il contesto energetico favorevole: per quanto vi sia un rapporto di interdipendenza tra venditori e acquirenti, l’impennata dei prezzi ha messo un grande potere in mano ai primi. L’altro è il malcontento transatlantico, determinato non solo dal flop in Afghanistan, ma anche dall’accordo sui sottomarini australiani, che ha creato dissapori tra Francia e USA. Putin si è quindi trovato davanti a uno scenario frammentato nel quale l’Europa, al contrario dell’America, non può permettersi di esagerare con le sanzioni e dove nel contempo si percepisce lo scollamento tra i paesi Occidentali. Questo quadro gli ha fatto capire che era il momento buono per agire”. 

Agire, ma per arrivare dove?

“Eh, questa è una domanda da un milione di dollari! Tutte le sue mosse precedenti (Siria, Libia, Nagorno-Karabakh, Mali, Georgia e persino la Georgia nel 2014) avevano sempre avuto una razionalità perfettamente comprensibile, per quanto cinica e brutale. Questa volta, francamente no”.

Perché no?

“Perché la cosa più logica sarebbe stata fermarsi al riconoscimento dell’indipendenza di Lugansk e Donetsk, anche perché nel frattempo si era già messo in tasca la Bielorussia, senza che nessuno se ne accorgesse fino a quando non è transitato proprio da lì per l’attacco. Sarebbe stata una tattica in stile-Georgia, dove formalmente il governo continua a dirsi filo-atlantico, ma nei fatti lo è molto meno rispetto a dieci anni fa. Proprio perché Europa e Stati Uniti parlano molto, ma alla fine non ci sono, Putin avrebbe agevolmente potuto controllare di fatto la situazione”.

Visto che USA e UE sono così impalpabili, quanto è concreta la possibilità che il vero obiettivo di Putin sia il progetto della “Grande Russia”, se non di una vera e propria ricostruzione dell’URSS che qualcuno ha prospettato (anche su affaritaliani.it)?

“Lo è. Proprio per questo dico che se si fosse fermato, evitando di invadere l’Ucraina, avrebbe potuto continuare il processo di erosione dell’influenza di USA e Unione Europea. Scegliendo la strada della violenza, ha invece aumentato la repulsione degli ucraini nei confronti della Russia: noi non siamo lì ad aiutare gli ucraini, questo è vero, ma certamente gli ucraini non vogliono stare coi russi”.

L’attacco all’Ucraina è chiaramente anche un attacco all’Occidente. Come si può pensare di evitare l’opzione militare una volta che Putin conquistasse il paese, trovandosi quindi al confine della Polonia e della Nato? 

“A quel punto, la Russia diventerebbe a tutti gli effetti un nemico della Nato. E sarebbe una novità: fino ad ora, nonostante tutto, non è mai stata definita tale in alcun documento della Nato o dell’Ue. Trovarsi un nemico al confine significa superare un punto di non ritorno e per mantenere la pace rimarrebbe una sola possibilità: deterrenza, deterrenza, deterrenza. Significherebbe, in pratica, una militarizzazione ancora più elevata, che ci riporterebbe all’assetto della Guerra Fredda”.

La differenza è che allora c’era una netta contrapposizione tra il blocco atlantico e quello sovietico, mentre oggi c’è in campo anche la Cina: cosa cambia?

“Sì, infatti la vera domanda da un milione di dollari sarebbe proprio quella sul posizionamento della Cina, che ancora non è chiarissimo. Solo pochi giorni fa, il loro ministro degli Esteri ha detto che non avrebbe accettato violazioni della sovranità ucraina, ma ad oggi la Cina rimane piuttosto silenziosa. É vero che ha dato un sostegno ai russi tramite l’abbassamento di alcuni dazi, ma non si riesce a capire se si schiererà fino in fondo con Putin. Anche immaginando che l’alleanza Russia-Cina prosegua, ci sarebbe comunque una bipolarità, sebbene di tipo diverso. Non ha affatto torto Biden quanto parla di un dualismo tra democrazie occidentali e autocrazie dell’Est. Anzi, è uno scenario sempre più reale”.

In questa nuova Guerra Fredda c'è anche una grave crisi energetica: come possiamo affrontarla, visto che si prevedono tempi lunghi?

“Non è certo un problema facilmente risolvibile. La crisi che stiamo vivendo dipende anche dall’assurdità della nostra politica energetica. Nel corso degli anni ci siamo davvero dati la zappa sui piedi. La produzione nazionale non basterà certo per risolvere la situazione. C’è il gas liquefatto, ma se arriverà in Europa lo farà con i prezzi alle stelle. Inoltre ci siamo dimenticati il Caucaso e abbiamo consegnato nelle mani di Russia e Turchia la Libia, che da sola avrebbe il potenziale per risolvere il nostro problema energetico. Oltre al fallimento della nostra politica energetica, paghiamo anche l’inesistenza della nostra politica estera”.

Un balbettio culminato anche nelle figuracce rimediate in questi giorni con entrambe le parti in campo, prima con Lavrov e poi con Zelensky

“Purtroppo”.

 

 

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