Grillini alla guida dei Comuni, l’improvvisazione non è un valore
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Con la consueta onestà intellettuale e con un limpido approccio liberale, il direttore dell’Istituto Bruno Leoni Alberto Mingardi, stamattina su La Stampa, ha esaminato i primi passi di Chiara Appendino e Virginia Raggi, i due sindaci (si perdoni il macho-language: ma non riesco proprio a scrivere “le due sindache”) Cinquestelle di Torino e Roma.
Lo fa in spirito “fair and balanced”: senza pregiudizi, certo esaminando criticamente la preoccupante propensione grillina allo status quo sul tema scottante delle municipalizzate, ma cercando comunque di offrire percorsi di riflessione e suggerimenti in positivo.
Doverosa premessa da parte mia: sarebbe ingiusto aggredire preventivamente amministrazioni insediatesi da un pugno di settimane. E meno che mai sarebbe accettabile se ciò accadesse da parte di un ceto politico (con scarse differenze tra centrosinistra e centrodestra, ahimé) che ha largamente fallito sul terreno di una gestione modernizzatrice di Comuni ed enti locali.
Chi scrive vota a Roma, ad esempio. E alle ultime elezioni comunali mi sono astenuto, avendo – nel mio piccolo – proposto pubblicamente ai candidati sindaci alcuni punti chiave, sistematicamente respinti anche da chi avrebbe avuto tutto l’interesse a cavalcarli. Proponevo essenzialmente due cose: un’operazione di taglio-choc di spese e tasse locali, e soprattutto un impegno a superare definitivamente il sistema dei servizi “in house” stabilendo - invece - per tutto e per sempre il criterio della gara.
Ma torniamo a Raggi e Appendino. Ciò che sorprende, in questo stentato avvio grillino, non è la mancanza di coraggio liberale e liberista: purtroppo, dopo anni di loro campagna ossessivo-compulsiva sui “beni pubblici”, di demonizzazione pervicace di gestioni private e criteri di mercato, era difficile immaginare svolte su questo terreno. Quel che invece lascia esterrefatti è perfino la mancanza di idee ordinarie (starei per dire: banali e conservative) sulla gestione dell’esistente.
Prendiamo il caso di Roma. Il sindaco uscente Marino ha rassegnato le sue dimissioni nell’ottobre del 2015. Le elezioni si sono tenute nel giugno del 2016. Possibile che, nell’arco di 8-9 mesi, la forza politica più in ascesa, e quindi maggiormente accreditata di chances di vittoria, non sia stata in grado di costruire un programma e una squadra per partire subito con il piede giusto?
Spero di sbagliare, ma temo che prevarrà una strategia di questo tipo: la sistematica consegna di faldoni e fascicoli alla magistratura. Con un triplice obiettivo. Primo: il giusto e doveroso accertamento di eventuali vicende opache del passato. Secondo: l’impiccagione morale di un vecchio amministratore a settimana, tanto per dare ai media un’arma di distrazione. Terzo: avere una scusa, un pretesto, per poter giustificare il blocco e la paralisi: “avremmo voluto fare questo e quello, ma adesso dobbiamo attendere che la giustizia faccia il suo corso…”.
Morale. I vecchi partiti sono responsabili di tanti fallimenti. Chi è nuovo ha un comprensibile “bonus”, nel senso che merita di essere messo alla prova. Ma l’improvvisazione non è mai un valore.
Daniele Capezzone
Deputato Conservatori e Riformisti
@capezzone