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Esteri
"Nella testa del Dragone" per una missione necessaria: capire la Cina

Flash numero uno. "In quei primi mesi a Pechino ho avuto la sensazione di tornare indietro nel tempo. I cinesi che possedevano un telefono cellulare erano rari, mentre noi studenti stranieri ce l'avevamo quasi tutti. In Italia era già prassi comune fissare un appuntamento via sms, a Pechino ho dovuto riabituarmi a comporre i numeri fissi e ad accordarmi prima del saluti su quando ci si sarebbe rivisti".

Flash numero due. "«Quando il progetto della Nuova via della seta sarà terminato, la lingua delle comunicazioni internazionali sarà il cinese, non più l'inglese. L'English ci ha messo duecento anni per diventare così diffuso, quindi non so dirti quando succederà col mandarino, ma è chiaro che questo sarà il futuro». Sono arrivata a destinazione, la berlina accosta e si ferma. L'autista storce il naso: sono una dei pochi clienti rimasti a pagare in contanti".

La Cina è davvero «vicina» come recitava il titolo di un vecchio film d’autore? No, sostiene Giada Messetti nel suo Nella testa del Dragone. È, anzi, molto lontana. Soprattutto, è diversa. Perché – continua l’autrice, sinologa, che in Cina ha vissuto sei anni – esistono dieci, cento, mille Cine. Grazie al suo lavoro, Messetti ha potuto indagare da vicino le contraddizioni di questo paese e soprattutto vedere plasmarsi e maturare quella che è stata definita «l’era dell’ambizione». Percorso da un flusso irrefrenabile di energia, slancio e obiettivi di progresso, il Celeste Impero ha infatti saputo trasformarsi e sfruttare al meglio i vantaggi della globalizzazione, in una vertiginosa ascesa che ha sovvertito i paradigmi geopolitici come mai prima d’ora. Dal «Nuovo Mao» Xi Jinping alla sfida con gli Stati Uniti per la governance globale, dal Sogno Cinese al progetto della Nuova Via della Seta, dalle incredibili innovazioni tecnologiche alle proteste di Hong Kong, fino allo scoppio dell’epidemia di coronavirus, l’autrice ci accompagna in un viaggio appassionante attraverso la Cina di oggi, facendo chiarezza tra stereotipi e realtà, aiutandoci a comprendere il presente e il futuro di un paese sempre più decisivo sullo scacchiere globale

cover Messetti Nella testa del   Dragone

Due istantanee, tra le tante, per rendere l'idea dell'incredibile viaggio di cui ci rende partecipi "Nella testa del Dragone", il libro di Giada Messetti uscito il 3 marzo con Mondadori. Dal 2002, l'anno in cui l'autrice arriva per la prima volta come studentessa a Pechino, al 2020, l'anno del Topo tristemente inaugurato con il coronavirus, la Cina ha compiuto un radicale cambiamento. Dagli appuntamenti da prendere con il telefono fisso all'onnipresenza di WeChat e delle altre app digitali, dalla gestione collegiale di Hu Jintao a quella accentrata di Xi Jinping, dall'ingresso nella WTO al colossale progetto della Belt and Road. "Nella testa del Dragone" riesce a raccontare genesi e sviluppo del "sogno cinese" in modo appassionante, lineare e chiaro, attraverso un mix di dati, concetti ed esperienze personali, utili a gettare ancora più luce su un mondo lontano e diverso da quello occidentale. Un mondo che, però, andrebbe e va conosciuto.

"Non è vero che la Cina è vicina, la Cina è molto diversa", dice Giada Messetti in un'intervista ad Affaritaliani. "Questa considerazione non ha un'accezione né positiva e né negativa, è un dato di fatto. E se continuiamo a non prenderne coscienza faremo fatica a conoscerla e a rapportarci con lei. Eppure si tratta di una necessità, perché anche se ne siamo lontani fisicamente non lo siamo più economicamente". La nostra scarsa conoscenza della CIna è dimostrata anche da quanto accaduto dalle scorse settimane. "Mi ha colpito moltissimo il fatto che l'emergenza coronavirus sia stata vissuta, almeno all'inizio, come un'emergenza puramente cinese", spiega l'autrice. "Non c'è stato un moto di solidarietà verso il popolo cinese, che ora invece ci regala le mascherine dopo che l'epidemia è arrivata in Italia. In questo ultimo mese si è parlato molto a vanvera della Cina e delle abitudini dei cinesi. Eppure gli standard di Wuhan rispetto a quelli di Roma, per dire, sono ormai nettamente più alti. C'è un forte gap di conoscenza che va colmato, perché con la Cina ci abbiamo e ci avremo a che fare".

La scarsa conoscenza della Cina ha alimentato la sinofobia sull'emergenza Covid-19. La stessa scarsa conoscenza può aver influito anche nell'adesione del governo Conte I alla Belt and Road?

Ammetto che non so quanta consapevolezza ci fosse nel momento della firma del memorandum of understanding. Ritengo che sia giusto prendere delle decisioni, ma si deve sapere fino in fondo che cosa si vuole fare, bisogna avere un'idea strategica. E invece l'Italia ha avuto un atteggiamento ambiguo dopo la firma, non ha sostenuto quella scelta con un comportamento coerente. I nostri politici hanno insistito, e insistono ancora, nel dire che si tratta di un accordo semplicemente commerciale, e non politico. Ma in realtà a livello commerciale questo accordo non ci ha portato praticamente nulla. Il giorno dopo la firma dell'Italia, Xi ha concluso accordi per 40 miliardi con la Francia, che non ha aderito all'iniziativa di Pechino. E in Cina, in merito all'adesione dell'Italia, si sono fatte semmai più valutazioni politiche e si è parlato soprattutto dei reperti archeologici che il nostro paese ha restituito a Pechino. Una restituzione che si inseriva perfettamente nella narrativa della Cina che si rimette al centro del mondo dopo il "secolo dell'umiliazione", è stata un'immagine plastica dell'Occidente che cede alla Cina quanto è suo.

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Giada Messetti è nata a Udine nel 1981. Sinologa, ha vissuto a lungo in Cina, dove ha scritto per «Diario» e ha collaborato con gli uffici di corrispondenza della Rai, de «Il Corriere della Sera» e de «La Repubblica». Rientrata in Italia nel 2011, ha lavorato per diverse trasmissioni televisive e radiofoniche di Rai e La7. Attualmente è autrice del programma di approfondimento di Rai3 «#CartaBianca». 

Qual è l'errore più ricorrente quando si parla di Cina?

Ce ne sono parecchi. Uno dei più rilevanti direi che è quello di fare sempre l'equazione Cina=governo cinese. Non ci si ricorda mai che la Cina è fatta di persone. Questo errore lo si è commesso ancora una volta nelle scorse settimane, quando non si è pensato al momento drammatico vissuto da milioni e milioni di cinesi. Dovremmo essere grati da chi è in quarantena in casa da un mese, invece non abbiamo pensato a questa cosa. Anzi, abbiamo cominciato a disertare i ristoranti cinesi e a evitare il contatto con i cittadini cinesi in Italia. Non credo sarebbe successa la stessa cosa se l'epidemia fosse nata altrove. Si pensa sempre che la Cina sia un monolite, ma non è così. Anche a livello politico, le discussioni (anche molto accese) dentro al partito ci sono sempre state. Dobbiamo capire che in Cina le cose funzionano diversamente: se il dibattito o gli scontri interni non vengono alla luce del sole non significa che non ci siano. Non si può giudicare o capire la Cina utilizzando i nostri schemi mentali. Servirebbe un approccio laico, che non significa rinunciare ai nostri valori, ma capire che in Cina non esistono solo bianco e nero, è tutto molto più complesso. Con un approccio senza pregiudizi credo si possa arrivare più facilmente a un punto d'incontro, che comunque va e andrà trovato, perché la Cina è una realtà fondamentale del mondo presente e futuro.

C'è stata qualche responsabilità da parte del governo cinese sulla diffusione dell'epidemia?

Io penso davvero che questa volta la Cina non abbia nascosto il problema, come era invece accaduto in occasione della SARS. C'è stato semmai un problema di comunicazione tra centro e periferie e tra amministrazione e popolazione, derivante da una struttura interna nella quale i funzionari locali cercano di evitare di dover dare brutte notizie al centro. C'è stato un ritardo? Sì, ma nessuno sapeva che cos'era il virus. Quando c'è stata la consapevolezza sono state prese misure senza precedenti per contenerne la diffusione. Guardiamo a che cosa è successo in Italia: avevamo molti più elementi per conoscere e prevedere il problema di quanti non ne avesse la Cina a inizio gennaio, eppure l'epidemia si è diffusa anche qui. Non credo si possa puntare il dito, anche perché la situazione è difficile da gestire in tutto il mondo.

In Cina quali saranno le conseguenze da Covid-19?

Certo la crescita economica subirà un rallentamento, e questo potrebbe causare un parziale incrinamento del patto sociale tra partito e cittadini, fondato sulla crescita. Credo però che la Cina sia molto più attrezzata dell'Occidente per contenere il problema e riprendersi. Dal punto di vista politico, condivido la lettura secondo cui il coronavirus potrebbe essere un problema più per Donald Trump che per Xi. D'altronde, la Cina ragiona su una prospettiva di lungo termine. Una prospettiva che in Occidente non esiste.

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