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Esteri
Taiwan vero fronte della sfida globale. Biden ufficializza: conta solo la Cina

Biden si dice pronto a difendere militarmente Taiwan. Peché sarà qui la sfida decisiva del secolo

Tra dichiarazioni, correzioni e parziali smentite, ormai appare chiaro a tutti: il principale focus degli Stati Uniti è l'Asia-Pacifico, o l'Indo-Pacifico come preferiscono chiamarlo a Washington e Tokyo. I fatti parlano da soli, ma se ci fosse bisogno di un'ulteriore dimostrazione per capire che cosa preoccupi principalmente l'America ecco che ieri Joe Biden ha rotto gli indugi e, per la terza volta in pochi mesi, ha dichiarato che gli Usa sarebbero pronti a difendere militarmente Taiwan nel caso di un'invasione della Repubblica Popolare Cinese.

Si tratta di una questione atavica, storica e irrisolta, quella tra Taipei e Pechino. Gli Usa hanno sempre giocato come arbitro dello status quo, sin dal 1979. Fu allora che Washington ruppe i rapporti diplomatici ufficiali con la Repubblica di Cina (ancora oggi il nome ufficiale con cui Taiwan è indipendente de facto, anche se Pechino la rivendica come una sua provincia) per intessere quelli con la Repubblica Popolare. Ma per calibrare e bilanciare la situazione venne approvato il Taiwan Relations Act, che stabiliva l'impegno americano a tutelare la difesa taiwanese, senza stabilire un obbligo di intervento in caso di aggressione esterna.

L'intenzione degli Usa è sempre stata, quantomeno a livello ufficiale, quella di tutelare lo status quo dei rapporti tra le due sponde dello Stretto. Quindi difesa dell'indipendenza de facto di Taipei come Repubblica di Cina, ma no alla dichiarazione di indipendenza formale come Repubblica di Taiwan. Un delicato e complesso equilibrio che, salvo rari scossoni, ha consentito sia a Taipei sia a Pechino di diventare protagoniste di percorsi di crescita economica importanti. Solo nel 1995-1996, con la terza crisi sullo Stretto, Washington dovette mandare la sua flotta del Pacifico per interrompere i lanci di missili della Repubblica Popolare nelle acque dello Stretto, in seguito alla visita americana di Lee Teng-hui, allora presidente taiwanese, e delle prime elezioni libere del 1996 svoltesi a Taiwan.

Usa e Cina flirtano con la modifica dello status quo su Taiwan: negoziato impossibile

Ora, però, gli equilibri sono cambiati e sia Washington sia Pechino sembrano flirtare con un cambiamento dello status quo. Entrambe ormai da molto tempo, quantomeno dal 2016 e dalla doppia elezione di Tsai Ing-wen a Taiwan e Donald Trump negli Usa, sembrano testare le rispettive risoluzioni provando a superare passo dopo passo le linee rosse che avevano funzionato fino agli ultimi anni. Un complesso gioco nel quale le due potenze provano a convincere l'altra che la propria convinzione è superiore a quella del rivale, sperando che quel rivale ceda.

Uno scenario che appare però quantomai complesso. Nessuno sembra voler cedere su Taiwan. Da una parte Pechino considera la "riunificazione" un obiettivo storico da raggiungere a tutti i costi, non negoziabili. E forte di un esercito molto più forte rispetto a quello dei tempi della terza crisi sullo Stretto flirta con l'idea di intervenire con la forza qualora fosse necessario. Dall'altra parte Washington ha svariati motivi per considerare centrale il destino di Taiwan, più di quello dell'Ucraina.

Per gli Usa, la Cina è diventato il primo rivale e il centro della loro strategia è diventata l’Asia-Pacifico. Da allora la Casa Bianca si prodiga a rassicurare Taipei sulla volontà di difenderla. Tra presunte gaffe (di Biden) e finti segreti svelati (la presenza dei militari Usa a Taiwan), l’ambiguità strategica sembra essere meno ambigua. Kiev è il 67esimo partner commerciale di Washington, Taipei il nono. Il settore dei semiconduttori, di cui Taiwan è indiscusso leader globale nel comparto di fabbricazione e assemblaggio, riveste un'importanza tecnologica e dunque strategica cruciale nella contesa tra potenze. Non un caso che Washington stia ripetutamente cercando di tagliare il cordone ombelicale ancora esistente dell'export di chip taiwanesi verso la Repubblica Popolare, portandosi in-house uno stabilimento del colosso TSMC con apertura prevista nel 2024 in Arizona. Non solo. Taiwan ha anche un’importanza simbolica. Esempio vivente, per usare una visione alla Mike Pompeo, che un governo etnicamente cinese può prosperare senza la guida comunista. 

Il governo cinese, in ogni caso, non ha nessuna intenzione di negoziare su quello che descrive come un "obiettivo storico". Anzi, sembra muoversi nella direzione di chiarire una timeline entro la quale dovrà avvenire quella che la Repubblica Popolare chiama "riunificazione" e che i taiwanesi chiamano "annessione". Il segnale è arrivato dalla terza risoluzione storica pubblicata durante l'ultimo plenum e dalla relazione del premier Li Keqiang in apertura delle "due sessioni" di marzo. Promettendo l'impegno nella "crescita pacifica delle relazioni nello Stretto di Taiwan" e rigettando le "interferenze straniere" su una vicenda considerata prettamente interna, la relazione contiene l'impegno a "risolvere la questione di Taiwan" entro la "Nuova Era". 

I progressivi test reciproci sulle rispettive intenzioni potrebbe velocizzare secondo alcuni la sfida decisiva, secondo altri evitarla, su quello che è lo snodo decisivo della contesa tra le due principali potenze globali. 

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